Mohamed Soltan è uno che la brutalità delle carceri egiziane l'ha vissuta sulla sua pelle. Attivista con doppia cittadinanza, statunitense ed egiziana, è stato per mesi in carcere, accusato di stare dalla parte dei Fratelli musulmani, e ha trascorso gran parte di questo periodo in sciopero della fame.
Ora, in un'intervista a Repubblica, racconta la sua esperienza, convinto di una serie di somiglianza tra il suo caso e quello di Giulio Regeni, il 28enne italiano ricercatore a Cambridge, assassinato in Egitto e ritrovato fuori dal Cairo a diversi giorni dalla sua scomparsa.
Sono i segni sul corpo del giovane e i risultati dell'autopsia a far dire a Soltan che più di una è l'affinità che li lega. "Sul suo corpo c'erano gli stessi segni che erano sul mio e su quello dei miei compagni di prigionia - racconta -. Il suo dolore è stato il mio".
L'esperienza che ha vissuto, come molti altri finiti nelle stesse carceri del Paese nordafricano, è quella di "interrogatori nel cuore della notte", di "compagni prelevati che tornavano con il corpo tagliuzzato o i segni di bruciature sul corpo", o che non tornavano proprio.
Se si è salvato, Soltan ringrazia il fatto che da subito l'ambasciata statunitense si sia mobilitata per lui.
"Mi odiavano - dice dei suoi carcerieri -, ma sapevano che non potevano ammazzarmi; hanno cercato di spingermi al suicidio". E ipotizza che Giulio Regeni potesse salvarsi, se lo stesso fosse stato fatto per lui. "Non capisco chi tratta il governo egiziano come se fosse uno stato in cui esiste la legge".
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