Ahmet Davutoğlu succede a Recep Tayyip Erdoğan a capo del governo turco. Una nomina annunciata e che, in apparenza, si muove nel solco della continuità, essendo Davutoğlu non solo il Ministro degli Esteri uscente, ma anche uno dei più stretti e fidati consiglieri del nuovo Presidente. Nessun terremoto, dunque, dalle parti di Ankara, anche perché – al di là di ventilate ipotesi di riforme costituzionali che porterebbero la Turchia verso un modello semipresidenzialista alla francese – è indubbio che il ruolo di Erdoğan sarà tutt’altro che meramente rappresentativo. Quella che si annuncia è infatti una Presidenza forte, influente, che saprà ben sfruttare il vero e proprio plebiscito elettorale con cui, per la prima volta nella storia, il Capo dello Stato è stato scelto.
Tuttavia non si deve cadere nell’errore di credere che Davutoğlu sarà un mero esecutore delle volontà del Sultano. La sua personalità politica e soprattutto intellettuale ne fanno, piuttosto, il punto di riferimento di una visione della Turchia e del suo ruolo internazionale con il quale tutti, nei prossimi anni, dovranno fare i conti. Davutoğlu infatti non è soltanto un politico, ma anche, e soprattutto, il massimo studioso turco di geopolitica, che ha delineato le strategie della rinascente potenza turca, e disegnato per Ankara un futuro non semplicemente di “sentinella” della NATO nel Mediterraneo Orientale. Rilanciando l’idea di una Turchia capace di rinverdire, in chiave moderna, i fasti della Sublime Porta. Idee espresse con chiarezza e realismo privo di sogni utopistici nella sua “Profondità strategica”, opera monumentale del 2001, praticamente ignota in Italia, se si eccettua il volume di studi redatto dal think tank “Il Nodo di Gordio” (La profondità strategica turca nel pensiero di Ahmet Davutoğlu, Vox Populi 2011).
Una visione che è stata troppo spesso fraintesa. Si è parlato, infatti, di strategia neo-ottomana, di pan-turchismo, addirittura, più di recente di “politica neo-islamica”... e, soprattutto, ci si è appigliati ad una frase dello stesso Davutoğlu “Zero problemi con i vicini” sia per ridurne in pillole il pensiero, sia per sostenere il suo fallimento, a fronte del coinvolgimento di Ankara nella crisi siriana, delle difficoltà in Iraq, del supposto fallimento di una politica volta a sostenere in Egitto la presidenza di Morsi e l’ala “dialogante” dei Fratelli Musulmani. Lettura riduttiva che non tiene conto di una serie di fattori determinanti.
In primo luogo la crisi in Siria sta permettendo alla Turchia di assolvere ad un ruolo sempre più influente nella regione medio-orientale, con l’appoggio ai peshmerga curdi del PDK siriano, partito fratello del PKK che opera in territorio turco e con il quale il governo Erdoğan ha finalmente trovato, dopo decenni di terrorismo e sanguinosa guerriglia, un accordo. Accordo che ha portato, anche, a stringere i rapporti con i curdi irakeni di Barzani, in lotta con l’ISIS. Relazioni commerciali sempre più importanti e, al contempo, il delinearsi di un nuovo ruolo di Ankara come potenziale “grande protettore” del nuovo Kurdistan indipendente che, secondo quasi tutti gli analisti, si staglia ormai all’orizzonte. Per altro, il conflitto scatenato tra Iraq e Siria dal nuovo Califfo, rende sempre più evidente come l’appoggio della Turchia sia essenziale per Washington e le Cancellerie Occidentali, consegnando così al tandem Erdoğan/Davutoğlu la possibilità di esercitare un’influenza crescente il tutto il Medio Oriente arabo e oltre, anche nel tormentato Maghreb e, prevedibilmente, in Libia. A conferma delle tesi del Professore sulla vocazione di Ankara come erede del ruolo mediterraneo dell’Impero Ottomano.
Per altro, la strategia di Davutoğlu si muove anche secondo altre tre direttrici. Rilassare sempre più le relazioni con i vicini iraniani - con i quali oggi i rapporti commerciali sono tanto migliorati da prevedere la costituzione di distretti industriali comuni – e stringere sempre più gli accordi con gli altri paesi turcofoni. Strategia che ha portato, al vertice della turcofonia del giugno scorso, il Presidente del Kazakhstan Nazarbayev a invitare gli “amici turchi” ad entrare a far parte della nascente Unione Economica Eurasiatica. Prospettiva che farebbe di Ankara una sorta di ponte fra questa e l’Unione Europea non solo rafforzando il suo ruolo strategico di terminale delle rotte commerciali e delle pipeline tese fra Caspio, Caucaso e Mediterraneo, ma mettendola anche in condizione di trattare con Mosca il riassetto degli equilibri del Caucaso, e in particolare di assumere un ruolo nel dirimere il conflitto latente fra Armenia e Azerbaigian – paese fratello per i turchi – per il Nagorno Karabach. In Europa, poi, la strategia di Davutoğlu ha già aperto ad Ankara la via dei Balcani, non solo puntando sulle relazioni con l’Albania – che guarda per ragioni storiche verso il Bosforo – ma anche stringendo accordi con Serbia e Ungheria, ovvero con altri paesi delusi, in questi anni, dalle politiche di Bruxelles. Strategia che, portata avanti, potrebbe rivivificare il rapporto della Turchia con tutta l’Europa Centrale, mettendola finalmente in una posizione non più subalterna nelle trattative, complesse, con la UE.
Infine vi è l’Africa, il teatro privilegiato del Grande Gioco delle potenze del prossimo futuro. Davutoğlu sicuramente porterà avanti la strategia di penetrazione nell’area sub-sahariana, che già vede la Turchia molto presente in tutto il Corno d’Africa, dall’Eritrea all’Etiopia alla stessa, tormentata Somalia. Presenza tanto più importante se si pensa, in prospettiva, alla necessità che il sistema industriale turco, in costante ascesa, ha di materie prime che provengono dalle regioni africane.
Andrea Marcigliano
Senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”
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