Tutti contro tutti. Il Grande Gioco dei nostri giorni

Il mondo è teatro di conflitti sempre più pericolosi e non riconducibili ai vecchi schemi di analisi

Tutti contro tutti. Il Grande Gioco dei nostri giorni

Scenari di un mondo caotico. E sempre più pericoloso. L’Ucraina, la Siria, Gaza, l’Iraq, la Libia... realtà in apparenza molto diverse, eppure tasselli di un unico, complesso mosaico geopolitico. Perché se è vero che si tratta di crisi quasi sempre non riconducibili ad unico comun denominatore, e dove agiscono attori diversi per diverse ragioni, è altresì indubitabile che comunque dipendono tutte dalla mancanza di equilibri globali e, soprattutto, di chi sia, in qualche modo, capace di garantirli.

Dopo il crollo del Muro di Berlino e l’implosione dell’URSS si è, per un certo tempo, creduto che tutto il globo potesse venire riorganizzato secondo uno schema unipolare, con gli States unica super-potenza a determinarne gli assetti. Poi la tragedia dell’11 Settembre ha suonato la sveglia dal lungo sogno dell’età Clintoniana, dimostrando che avevano, invece, ragione quanti, come Huntington, sostenevano che il mondo del dopo Guerra Fredda sarebbe stato molto più conflittuale del precedente, e molto più difficile da “governare”.

Una difficoltà che si sta rivelando sempre più drammaticamente concreta in questi giorni. Anche perché la politica dell’Amministrazione Obama dà ragione alle tesi espresse in un’intervista – pubblicata proprio su “Il Giornale” – a Michael Ledeen e, per altro, sostenute da altri analisti statunitensi, come Robert Kagan: ci troviamo di fronte ad un progressivo ritirarsi dell’America in se stessa. Più che un nuovo “isolazionismo”, la decadenza di quella volontà egemonica che aveva caratterizzato – pur con diverse fasi e sfumature – la politica di Washington da Roosevelt sino ai giorni, difficili, di George W. Bush.

A spingere in questa direzione un coacervo di concause: la crisi economica, l’emergere negli States di una nuova Middle Class sempre meno attratta dal mondo e dall’Europa, la crescente perdita di interesse per gli scenari europei e mediterranei connessa con una sempre più accentuata vocazione verso l’area del Pacifico. Infine, ciliegina sulla torta, una Presidenza, quella di Barack Obama, che appare sempre meno disposta ad assumersi gli oneri ed i rischi che competono ad una super-potenza egemone.

Gli ottimisti, hanno parlato di recente dell’emergere, ancorché lento e faticoso, di un nuovo sistema mondiale “multipolare”, ovvero dove non solo uno ma più siano i soggetti che determinano il sistema degli equilibri globali. Una sorta di riproposizione, su scala enormemente più vasta, del vecchio “concerto delle Potenze”. Tuttavia un modello difficilmente realizzabile nella realtà odierna, dove troppi appaiono i soggetti che interagiscono nei diversi scenari regionali e di fatto nessuno, a fronte dell’abdicazione di Washington, è in grado di assumere un ruolo determinante.

Prendiamo la crisi Ucraina che vede, in apparenza, fronteggiarsi gli antichi rivali della Guerra Fredda, Russia e America... ma che è stata innescata da forze regionali, in particolare la Polonia e, in subordine, la Lituania, che hanno fortemente appoggiato la rivolta di Piazza Maidan e contribuito a quel Regime Change che ha portato alla tensione tra Kiev e Mosca. Senza dimenticare che dietro a tali attori geopolitici si stagliano le ombre di potentati finanziari ed economici internazionali. Così Washington si è trovata coinvolta in un conflitto che, presumibilmente, avrebbe preferito evitare.

Non per la prima volta, visto che una situazione consimile si è già inverata in Libia dove fu soprattutto Parigi, in sinergia con Sauditi e Qatar, a spingere per detronizzare Gheddafi. Aprendo così una stagione di caos in Libia e, per ricaduta, anche in tutta l’Africa sub-sahariana.

E nella stessa Siria sono stati ancora i sauditi e il Qatar con l’appoggio dei francesi a sponsorizzare l’inizio della rivolta contro Assad; un conflitto che ha finito, in un secondo momento, con il coinvolgere sempre più gli interessi della Turchia, e, di fronte al quale, l’Amministrazione Obama ha dimostrato la sua sostanziale impotenza. Anche perché ben poco disposta a entrare in aperto contrasto con i russi – e in parte anche con i cinesi – che appoggiano il regime di Damasco.

In Iraq, poi, la situazione appare ancora più complessa, visto che allo scontro “tradizionale” fra sunniti e sciiti – appoggiati da Teheran - si collegano altri conflitti interni, soprattutto al fronte sunnita. Dove i Banu Saud hanno preso le distanze dall’ISIS, temendo le ambizioni dei leader jihadisti del novello Califfato, mentre l’Emiro del Qatar continua ad appoggiarlo.

E poi, ovviamente, ci sono i curdi, che giocano una complicata partita tra Siria ed Iraq, coinvolgendo inevitabilmente anche Iran e Turchia. Mentre Mosca ha palesemente scelto di appoggiare il governo di Al Maliki a Baghdad, trovandosi così, paradossalmente, schierata dalla stessa parte di Washington. E degli ayatollah iraniani.

E la situazione irakena sta riverberando sulla crisi di Gaza, con Hamas spaccata in più fazioni, divisa fra filo-iraniani, filo turchi ed altri, più oltranzisti, che guardano ai jihadisti salafiti dell’ISIS e al Qatar. Con l’inevitabile conseguenza che diventa quasi impossibile una qualsiasi trattativa e/o mediazione con un soggetto che ha troppe “teste” e troppi riferimenti e patroni diversificati.

Parlare di mondo multipolare, in questo scenario caotico, è dunque raccontarsi una sorta di favola bella. Piuttosto si dovrebbe ragionare di un nuovo sistema di alleanze – e quindi equilibri e squilibri – a geometrie variabili. Che è la realtà instabile e pericolosa con la quale ci dobbiamo abituare a convivere.

Andrea Marcigliano

Senior fellow del think tank “Il Nodo di Gordio”

www.NododiGordio.org

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