Quando sono iniziate le rivolte nel mondo arabo dalla Tunisia all'Egitto, poi alla Libia, alla Siria e allo Yemen, con turbolenze in Algeria e anche un grave attentato in Marocco, di fronte all'atteggiamento positivo verso «le piazze» dimostrato da Washington - peraltro in linea con la politica di «allargamento della democrazia» già impostata dall'amministrazione Bush - in qualche osservatore di cose internazionali si sono ravvivati i ricordi di un altro processo di democratizzazione finito infaustamente in Iran con l'instaurazione di un regime oppressivo di tipo teocratico, dai forti tratti aggressivi innanzi tutto antisraeliani.
Anche in chi condivide l'obiettivo che le società del XXI secolo debbano darsi un ordine democratico, e che le libertà e diritti delle persone non vadano considerati lussi solo per gli occidentali, il pericolo che personaggi dai tratti autoritari come il tunisino Zine el Abidine Ben Alì o l'egiziano Hosni Mubarak venissero sostituiti da esponenti del fondamentalismo islamico ha spaventato chi ha una visione realistica dei processi internazionali. Persino la guerra a Muammar Gheddafi ha sollevato qualche preoccupazione.
A cinque mesi di distanza dalla messa in movimento delle piazze del Nord Africa, oggi va considerato un nuovo fattore: l'uccisione di Osama bin Laden. Alla luce di questo avvenimento vanno riconsiderati alcuni giudizi sinora formulati. Nelle prime valutazioni sulla morte del capo di Al Qaida si è detto che erano circa sei mesi che la sua sede clandestina era stata precisamente individuata. Un certo via libera dunque alle «rivolte arabe» sarebbe venuto solo quando si era ottenuta la sicurezza di potere eliminare il capo-simbolo della guerra fondamentalista islamico-sunnita. Questa considerazione consente di esaminare le mosse americane sotto una luca diversa. Si sa quanto nella cultura e nella storia arabo-islamica conti il fattore destino, come la sconfitta non sia considerata solo un inconveniente ma anche un segno di una negativa volontà divina. Come Allah apprezzi il martirio ma non i vinti. L'operazione bin Laden se seriamente coordinata, insomma, con l'appoggio alle spinte democratizzanti (al di là delle pur permanenti contraddizioni: basti considerare il ruolo dei Fratelli musulmani in Egitto) consente un giudizio più positivo sulla politica estera obamiana.
Sono evidenti ancora gli elementi di rischio: la spinta alla democratizzazione degli stati islamici poggia su due pilastri, il moderatismo del partito islamico-sunnita al potere in Turchia e dell'ala sciita quietista consolidata a Bagdad. Questi due grandi centri d'influenza possono controbilanciare le spinte del fondamentalismo iraniano e le prudenze conservatrici saudite, aprendo uno spazio per la maturazione in senso liberaldenocratico (anche se certi appelli alla sharia sono assai preoccupatni) dei Fratelli musulmani. Ma niente può essere dato per scontato. Diventa comunque più realistico dopo la morte di bin Laden, con il forte sbandamento che questo avvenimento produrrà nelle file del fondamentalismo.
Certe reazioni al Cairo anche tra i Fratelli musulmani di fronte all'uccisione del capo di Al Qaida registrano più che un'adesione per così dire post mortem alle posizioni qaidiste, la preoccupazione di quanto nella mentalità islamica pesi il senso della sconfitta e il timore dunque che da questa «sensazione» venga un invito allo «sciogliete le righe» di qualsiasi posizioni islamicamente ispirata. Insomma i capi dei Fratelli musulmani sarebbero attenti a non perdere il controllo dei processi in atto piuttosto che a perseguire una linea jihadista, da guerra santa.
Naturalmente il percorso sarà ancora molto accidentato ma, peraltro, appare sostanzialmente inevitabile: il ricorrere a regimi autoritari, garantiti dall'esercito, con una forte impronta laicista non era più possibile dopo che la nazione turca (particolarmente influente dal 1600 in poi negli orientamenti di tutto il Medio Oriente) che con Kemal Atatürk aveva inventato questo equilibrio politico, vi aveva rinunciato con la vittoria del Partito della giustizia e dello sviluppo di Recep Tayyip Erdogan.
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