«Lasciamoci trasportare dai nostri sogni». L'insegnamento dato a un giovane Mufasa, il Re leone dell'immaginario collettivo di tante generazioni di bambini, è l'impronta. Somma di immaginazione e desiderio, fantasticare - anche a occhi aperti - non costa nulla e spesso diventa realtà.
Il senso del prequel del cartone animato Disney del '94, che ha avuto una nuova versione live action nel 2019, sta tutto qui. Grandi e piccini lo scopriranno dal 19 dicembre quando Mufasa arriverà nelle sale, strenna natalizia, tra le più attese di sempre. Perché il celebre felino è dentro ognuno di noi e, per ognuno di noi, si collega a un momento. Un'infanzia. Un ricordo. Una stagione. Poesia di fanciullezza e libertà.
Stavolta ci troviamo davanti Kiara, la bimba di Simba e Nala, che i due babysitter Timon e Pumbaa, rispettivamente il suricato e il facocero, portano al mandrillo Rafiki perché le racconti l'infanzia del nonno. E qui entra in scena il cucciolo Mufasa che, travolto da un'inondazione dopo anni di siccità nella savana, finisce per incontrare Taka.
È la storia di un mito e i miti non si toccano. Come nemmeno i cattivi, perché senza un perfido come Scar, il buono non sarebbe buono. E Mufasa non sarebbe Mufasa.
Nel pantheon dei cartoon oggi trasformati dal computer in live action di soggetti a tratti antropomorfi - e questo è il limite dell'operazione - abitano queste fisionomie e questi musi che appartengono all'infanzia della nostra coscienza.
Il regista nero Barry Jenkins (Moonlight, Oscar per la sceneggiatura, e Se la strada potesse parlare) quando ha ricevuto l'incarico per Il re leone non ne voleva sapere. «Il mio agente mi ha detto che c'era un problema. Non si poteva rifiutare. A me piace lavorare con esseri umani. Questi animali sono nel mio cuore di bambino. Come potrei dirigerli...». È finita che il film è nato «e io che avevo 15 anni quando uscì il cartone - aggiunge Jenkins - oggi non credo al sogno che vivo. Allora mai avrei pensato che, un giorno, Mufasa sarebbe stata una mia creatura».
E lo è davvero. «Non nasce re, lo diventa. Siamo stati educati a pensare che si è sovrani in via ereditaria. Lui lo è per saggezza. Un requisito che non si ottiene per diritto divino. In questo il film ha il timbro di Barry Jenkins».
In tema di divinità, uno che deve scontrarsi con un mostro sacro è Luca Marinelli che dà voce a Mufasa, nella versione del '94 «interpretato» da Vittorio Gassman. «Ne sono tuttora angosciato. Temo il confronto. Sono sorpreso. Quella versione in Vhs la ricordo con gli occhi sognanti del bambino di dieci anni che ero».
Una versione sottoscritta da Elodie (Sarabi) e Alberto Malanchino (Taka) che completano il cast di doppiaggio con Edoardo Leo (Timon), Marco Mengoni (Simba), Elisa (Nala), Stefano Fresi (Pumbaa). E fa niente se non è un cartone.
Gli adolescenti di ieri non sono gli stessi di oggi, anche se le musiche... Scordatevi «Hakuna matata», qui di matata ce n'è più di una perché la colonna sonora non la canta Elton John. E le canzoni... Beh le canzoni rischiano di non diventare hit sempreverdi come trent'anni fa.
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