Alberto Indelicato
Nella provincia canadese dell'Ontario le questioni di famiglia in seno alla popolazione islamica non saranno risolte da arbitrati affidati ad autorità religiose, che s'ispireranno alla sharia. A chiedere questa facoltà erano stati - com'è noto - gli stessi esponenti del clero musulmano che, a tutta prima, avevano ricevuto un benevolo ascolto da parte delle autorità locali. Era peraltro evidente che la battaglia dell'Ontario sarebbe stata solo la prima tappa di un progetto più ampio. I proponenti infatti non facevano mistero del fatto che, una volta ottenuto l'assenso di Toronto, avrebbero chiesto che a tutto il Canada fosse estesa la competenza degli imam sui loro correligionari relativamente a questioni delicatissime, sottratte in tal modo alla legislazione comune. Il dibattito sull'argomento è durato vari mesi, da quando l'ex ministro della giustizia dell'Ontario, la signora Marion Boyd, si era pronunciata favorevolmente alla richiesta dei dirigenti islamici. C'è da chiedersi come mai proprio una donna avesse potuto prendere una siffatta posizione, pur conoscendo perfettamente che cosa la sharia concretamente significhi per i diritti delle donne. Sono state principalmente le organizzazioni femminili a condurre la battaglia contro quella che ritenevano una minaccia seria alla loro dignità ed alle loro libertà in uno stato occidentale. Ed è stata una donna islamica, Elahé Chokrai, dirigente di un'associazione di immigrate iraniane, a ricordare ai politici che le norme della sharia sono «incompatibili dalla A alla Z» con la «Carta canadese dei diritti e delle libertà», pietra angolare della costituzione dal 1982. Il pericolo sembra dunque, almeno per il momento, scongiurato. Restano da capire la ragioni della scarsa sensibilità dei politici, che hanno avuto bisogno delle proteste delle interessate per evitare una grave abdicazione dello stato in materie di cui dovrebbe essere geloso. C'è probabilmente il desiderio di accattivarsi una parte dell'elettorato, ma più ancora c'è in Canada, come altrove, il terrore di non apparire abbastanza «aperti» nei confronti delle minoranze, specie se rumorose ed arroganti. Per la verità i dirigenti della comunità islamica a sostegno della loro richiesta avevano invocato la circostanza che dal 1991 in Canada è ammesso che cristiani ed ebrei possano rivolgersi a collegi arbitrali loro propri per questioni relative all'affidamento dei figli ed al divorzio, ma le norme che essi applicano non sono contrarie alle leggi generali dello stato, a differenza della sharia (basti pensare al ripudio ed alla poligamia). Caratteristici gli argomenti con cui gli islamici hanno protestato: «Ecco l'effetto dei pregiudizi del'11 settembre», ha dichiarato un imam di Montreal. Diverso è stato il commento della coordinatrice delle donne musulmane: «È una ritirata dell'Islam politico che vuole conquistare il potere giudiziario».
Resta il fatto che le donne islamiche sono rimaste sole a combattere una battaglia che - a ben riflettere - non riguardava loro soltanto, ma tutta la società canadese. Nessun appoggio è venuto loro dalle femministe italiane, per non parlare delle nostre innumerevoli associazioni per i diritti civili. Silenzio comprensibile, anche se tutt'altro che giustificabile: è proibito o almeno fortemente sconsigliato toccare certi tabù. Tuttavia la decisione canadese fa bene sperare su un'inversione di rotta.
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