Napoleone inventò i musei rubando i nostri capolavori

Ecco la vera storia delle spoliazioni di Bonaparte che cambiarono il patrimonio culturale dell'Italia

Napoleone inventò i musei rubando i nostri capolavori

Napoleone Bonaparte è al centro di una aneddotica quasi infinita. Di certo tra le sue più grandi imprese ci fu quella di trasformare l'Armée d'Italie, che nel 1796 era sostanzialmente un'accozzaglia male armata e mal vestita (di addestramento non ha nemmeno senso parlare), in una temibile macchina militare che penetrò nella penisola con spietata efficienza.

Per ottenere questo risultato, oltre a spiccate caratteristiche logistiche e tattiche, il generale corso dimostrò una certa dose di cinismo spiegando da subito alla truppa che l'Italia era il non plus ultra della possibilità di fare bottino. Il risultato fu un saccheggio sistematico che divenne leggendario. E infatti nell'aneddotica c'è anche una sorta di favoletta che viene a seconda dei casi attribuita ad un dialogo tra Napoleone e Canova o Napoleone e un alto prelato italiano. Al futuro imperatore lamentante del fatto che gli italiani eran tutti ladri per natura sarebbe stato risposto in modo piccato e giustificatissimo: «Non tutti... ma Buona-parte sì». Andando oltre questo scambio di battute, reale o fittizio che sia, una cosa è certa: al di là dei comportamenti della soldataglia che lottava per riempirsi la pancia, Bonaparte portò avanti una spoliazione sistematica del patrimonio artistico italiano. Una spoliazione che è ben raccontata da Giorgio Enrico Cavallo nel suo Napoleone ladro d'arte (D'Ettoris Editori, pagg. 110, euro 14,90, prefazione di Roberto Marchesini).

Fu un saccheggio scientifico, ponderato, con finalità politiche e che ebbe conseguenze sul lungo periodo e che ha sostanzialmente cambiato la storia. Giusto per fare un esempio, la nostra moderna idea di museo deve moltissimo, nel bene come nel male, al Musée Napoléon che è alla base del moderno Louvre. Ma andiamo con ordine, fino all'Illuminismo, i musei veri e propri erano pochissimi. Esistevano le gallerie d'arte o le Kunstkammer dei principi, che utilizzavano l'arte per magnificare la potenza propria e quella della propria famiglia. Esisteva poi tutta l'arte sacra che si portava dietro una funzione essenzialmente edificante e didattica.

L'Illuminismo si portava dietro due idee: la prima era quella di spazzare via la cultura precedente, considerata come superstiziosa e inferiore. La seconda: trasformare la cultura in qualcosa di universale e fruibile da tutti, anche se ovviamente ammannito dall'alto. Ecco che allora il museo si trasforma in un luogo dove il bello, ammassato, può stupire ed educare il popolo. Per gli illuministi radicali, per usare le parole della prefazione di Roberto Marchesini: «Questo è il grande obiettivo della modernità, che in Italia si è presentata con i colori giacobini e guidata dal generale corso: eliminare, estirpare la metafisica. La realtà non ha più due facce, una materiale e una spirituale; tutto è pura materia. Da essa si può trarre solo un guadagno economico e un piacere sensoriale».

Nel caso poi della discesa napoleonica all'ideologia si aggiunse anche la mera volontà di potenza e la volontà di portare a Parigi tutto il portabile. Come spiega Cavallo, Napoleone voleva: «Una dimostrazione della superiorità intellettuale della Francia, unico Paese che poteva conservare l'arte e goderne». Così per la penisola vennero sguinzagliati esperti e commissari di una rapacità mai messa in atto prima da nessun esponente del pur criticabilissimo Ancien Régime. Nominare tutte le opere sottratte nei vari Stati della penisola dagli emissari francesi richiederebbe ben più spazio di questa pagina e si trasformerebbe in uno sterile elenco telefonico del capolavoro trafugato. Ma giusto per rendere l'idea presero la via della Francia: la Mensa Isiaca, il Codice Atlantico di Leonardo da Vinci, Le nozze di Cana del Veronese, l'Assunzione della Vergine di Tiziano, l'Apollo del Belvedere, la Maestà del Louvre di Cimabue, i Cavalli di San Marco (che i veneziani avevano saccheggiato secoli prima a Costantinopoli)... E poi ci fu il trattamento riservato a molti pezzi minori, ben raccontato da Monaldo Leopardi, il padre del grande poeta: «Le cose più sacre e i lavori più ricercati si pestavano con le mazze, e posti in grandi cassoni si trasportavano a satollare la rapacità della Repubblica Madre, e dei Cittadini Commissari suoi figli».

I capolavori invece finirono quasi tutti sotto l'autorità di uno dei più ingegnosi e colti cortigiani dell'Impero, Dominique Vivant (1747-1825) che con le opere italiane saturò il Louvre e poi anche i musei dipartimentali. Come Museo, il Louvre soddisfaceva un desiderio di accumulo enciclopedico «ad incrostazione», dove le opere non erano contestualizzate e spesso erano svuotate di senso ma soprattutto era un completo successo di immagine per la Francia. Anche nel pieno delle ostilità con l'Inghilterra, che incontrò in Napoleone il più grande ostacolo al suo dominio mondiale, si creò un traffico ininterrotto di turisti. Tra cui anche Maria Cosway (1760-1838) che realizzò dei celebri disegni che ci hanno dato esatta traccia dei capolavori esposti e della loro collocazione.

Il libro di Cavallo dà poi conto anche di come molte delle opere sottratte siano tornate nei territori a cui originariamente appartenevano. Ma fu tutt'altro che un processo facile, persino Luigi XVIII rimesso sul trono dopo la caduta di Napoleone manifestò la volontà di tenersele: «I capolavori delle arti ci appartengono da questo momento con un diritto più forte del diritto di guerra». E visto quanto era debole il nuovo regno del così detto - per stazza e difficoltà a deambulare - Re Poltrona la Francia venne trattata con i guanti di velluto.

Solo quando Napoleone tentò il fallimentare colpaccio dei «Cento giorni» si decise di operare in maniera più decisa su Parigi. Un gran numero di opere d'arte rimase comunque in Francia; il rientro fu ostacolato dalla dimensione dei capolavori, dalla loro fragilità, dall'ostinazione di Vivant... Il fatto che molto ritornò al suo posto è stato comunque un miracolo. Miracolo a cui contribuì anche Antonio Canova che si spese moltissimo per il ritorno delle opere dello Stato pontificio e che proprio per questo venne insignito dal Papa del titolo di «marchese d'Ischia» e iscritto nel libro d'Oro del Campidoglio.

Di certo però dopo quelle spoliazioni era cambiato il mondo. Molto era andato disperso e venduto, nel contempo era nata l'idea di museo moderno. Con molto del suo male e molto del suo bene. Nel volume Giorgio Enrico Cavallo pone l'accento soprattutto sul male, ovvero sul fatto che il museo, soprattutto quando non è pensato strappa l'oggetto dal contesto. Dall'altro il museo può essere, quando pensato, anche un luogo che valorizza e restituisce senso, i musei di oggi non sono, o non dovrebbero più essere, solo l'accumulo di bonapartesca memoria.

Di certo Napoleone di suo non avrebbe restituito nulla, come molti potenti,

seppur di genio, voleva ingoiare il mondo, farlo suo. Non lasciare che la bellezza restasse libera e vicina alla gente. Del museo amava lo stupore reverenziale che generava. Uno stupore che non lascia vera memoria del bello.

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