"Nato per far parlare tutti nell'Italia libera dal fascismo"

Il direttore del "Tempo" racconta la storia straordinaria del quotidiano romano fondato 80 anni fa da Angiolillo

"Nato per far parlare tutti nell'Italia libera dal fascismo"

Compie ottant'anni Il Tempo, storico quotidiano della Capitale. E li compie proprio negli stessi giorni in cui fa gran rumore il suo scoop sugli scambi epistolari tra magistrati italiani sul governo Meloni. Abbiamo chiesto al direttore del Tempo Tommaso Cerno di ripercorrere la storia del giornale, dalla sua fondazione nel 1944 alle polemiche di oggi.

Tommaso Cerno, il primo numero del quotidiano che oggi dirige uscì proprio nei giorni in cui gli Alleati arrivavano nella Capitale.

«É una storia singolare, che non tutti conoscono: Il Tempo è nato insieme alla Liberazione di Roma. Il fascismo non era finito, c'era ancora la Repubblica di Salò, c'era ancora un anno di guerra davanti, anche se nessuno lo sapeva, allora. Roma era una Capitale squassata, abbandonata, bombardata, il Re era scappato. Proprio in quel momento di caos storico nacque la scommessa di fare un giornale che tenesse insieme tutti i semi dell'Italia liberata dal fascismo: la cultura liberale, socialista, cattolica, repubblicana. E che accompagnasse la ricostruzione del paese dopo il Ventennio».

Proprio gli Alleati ebbero un ruolo nella sua fondazione. Perchè?

«Gli Americani e il nuovo governo italiano decisero quali giornali aiutare e finanziare, per riattivare la circolazione dell'informazione nel Paese. E fu il colonnello Charles Poletti, già politico democratico, cui il presidente Franklin Delano Roosevelt aveva affidato la gestione del governo militare alleato nell'Italia liberata, a fare in modo che Renato Angiolillo, fondatore del Tempo, potesse accedere ai finanziamenti del Poligrafico dello Stato per pubblicare un quotidiano capace di dare voce ad una Nazione che rinasceva dalle macerie della dittatura e della guerra. Altri giornali importanti, ma compromessi con il recente passato, non ebbero questo supporto: a Roma, ad esempio, Il Messaggero».

Chi era Renato Angiolillo?

«Una figura straordinaria di editore-direttore, che ha costruito il suo quotidiano facendo sempre prevalere la dimensione giornalistica su quella aziendale. Scelse fin dall'inizio di far parlare tutti, aprendo le pagine alle nuove idee, nello spirito della Liberazione. Nelle sue pagine passarono quasi tutti i principali intellettuali di un'era caotica e feconda».

Qualche nome?

«Da Vitaliano Brancati a Guido Piovene, da Carlo Cecchi e Alberto Moravia, e poi Igor Man, Mario Praz, Silvio D'Amico: il meglio dell'intellighenzia italiana più variegata per opinioni e tendenze culturali e politiche».

Con quale mission editoriale era stato pensato il giornale di Angiolillo?

«Quella di diventare la voce alternativa ai grandi giornali storici del Nord. Il Tempo non li superò nella diffusione, ma sicuramente riuscì a ritagliarsi un ruolo altrettanto cruciale, diventando il punto di riferimento dell'altra metà d'Italia, quella del Centro-Sud, e di raccontarla».

Un quotidiano che fin dalla sua nascita ha una collocazione geografica particolare, nel cuore della Roma politica.

«É sicuramente un suo tratto identitario che la sede storica di Palazzo Wedekind sia proprio all'incrocio tra Palazzo Chigi e Montecitorio: gli diede fin da subito un legame naturale con la politica, e uno sguardo privilegiato sul Palazzo».

Un legame che si fece più visibile con la direzione post-Angilillo di Gianni Letta?

«I quattordici anni di direzione Letta furono una seconda giovinezza per il quotidiano, che diventò capace di interferire e indirizzare la vita politica».

L'identità del Tempo è sempre stata quella del giornale moderato e conservatore?

«Sì, ma con il gusto per l'obiezione, il parere diverso, il graffio clandestino. Un giornale che è sempre riuscito a mantenere uno spirito un po' corsaro, anche nella Roma più papalina. E lo ha mantenuto pur cambiando tanti direttori - ricordo solo i più recenti, da Franco Bechis a Mario Sechi a Gianmarco Chiocci - e tanti editori. Fino ad arrivare oggi agli Angelucci, tra i pochissimi imprenditori italiani ad avere ancora la voglia e il coraggio di investire nell'editoria».

Lei è arrivato al Tempo da una storia politica assai diversa.

«Ci sono i pentiti della mafia, figurati se non ci sono quelli della sinistra... Scherzi a parte, vengo dal profondo Nordest del Friuli, e ho votato per la prima volta nel 1993, scegliendo con entusiasmo il Psi di Craxi e non la Dc della mia tradizione familiare. Il giorno dopo venne giù tutto, con Tangentopoli, e mi ritrovai con il socialista Berlusconi a capo del centrodestra e il democristiano Prodi a capo del centrosinistra. Una contraddizione biografica che mi ha segnato, ma in fondo positivamente: ho capito che spesso la realtà non è facilmente classificabile. Sono stato di sinistra, ora penso - come Reagan - che il cambiamento lo produca spesso la destra».

Oggi celebra gli 80 anni del Tempo con il botto dello scoop e delle polemiche sulla mail del magistrato Paternello.

«Quella sera ci

siamo chiesti: va pubblicata? La risposta era ovvia: sì. É un documento di interesse pubblico indubbio, che dimostra quanto sia ancora cruciale il rapporto tra giustizia e politica. E di questo è giusto e sano discutere».

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