Roma - La domanda è circolata ieri in lungo e in largo nella capitale: ma Massimo D’Alema «sapeva», come lascerebbero pensare le rivelazioni di ieri dell’ambasciata olandese a Roma - tanto da avvalorare la tesi di chi (verdi, qualche prodiano) lo vede fregarsi le mani per le difficoltà di tenere in vita la maggioranza - o invece era completamente all’oscuro della lettera dei sei ambasciatori che hanno chiesto la permanenza del contingente italiano in Afghanistan, come si è teso a far credere due giorni fa?
Nessuna risposta, ovviamente. Ma strane cose avvengono alla Farnesina di questi tempi. Il fatto stesso che da Seul - dove si trovava il ministro degli Esteri - si sia evocata la «convinzione» che la comunicazione a Washington della missiva voluta da Spogli fosse avvenuta «a livello di funzionari e non politico», affondata senza pietà pochi attimi dopo da quel «lodevole» espresso dal dipartimento di Stato, dimostra abbondantemente lo stato di confusione che si vive al ministero degli Esteri. Dove gli equivoci si susseguono agli equivoci. Un conto è discuterne in patria, con la sinistra radicale, con cui ci si può arrabattare in qualche modo. Altro è dovere spiegazioni ad alleati che mostrano di non poterne più. È dal vertice Nato di Riga, ad esempio, che si va discutendo apertamente della necessità di prepararsi contro una possibile offensiva primaverile talebana in Afghanistan. Tony Blair lo disse chiaramente in Lettonia, che le truppe britanniche non potevano esser le sole ad affrontare i rischi dello scontro. Si chiesero uomini e mezzi. L’Italia fece finta di nulla. Così come a Bruxelles, la settimana scorsa, dopo mesi in cui il segretario generale dell’alleanza De Hoop Scheffer andava ripetendo che «se vogliamo avere successo occorre che le necessarie risorse civili e militari siano fornite», il nostro ministro degli Esteri - fatto sapere che Condoleezza Rice «ringraziava l’Italia per l’Afghanistan e per Vicenza» - smentiva fosse stato reclamato alcunchè: «Nessuno ha chiesto nulla di particolare all’Italia».
A Washington, ma anche a Bruxelles, sale la convinzione che l’Italia sia sempre più inaffidabile. Appena 7 mesi fa D’Alema fu accolto con simpatia nella capitale Usa. Spiegò che dovevamo ritirare i nostri uomini dall’Irak in quanto così si era promesso in campagna elettorale, ma garantì che in Afghanistan avremmo tenuto fede ai patti, che il legame con gli Usa si sarebbe rafforzato grazie alla nostra «sincerità». La crisi libanese parve avvalorare l’impegno: Roma si fece promotrice della conferenza tesa all’invio di truppe Onu per bloccare i combattimenti tra israeliani ed hezbollah. Ma da quel momento in poi le cose cambiano: prima le polemiche - tenute sotto controllo - sul disarmo degli uomini di Nasrallah e il braccio di ferro su Damasco (l’Italia voleva dialogare coi siriani). Poi le strizzatine d’occhio ad Ahmadinejad da parte di Prodi.
Ancora, l’inattesa astensione italiana all’Onu per l’elezione del membro sudamericano al Consiglio di sicurezza, con la Rice che espresse tutto il suo disappunto a D’Alema per l’appoggio di fatto dato al venezuelano Chavez. Infine la questione delle basi Usa in Italia: non solo Vicenza - con le titubanze di palazzo Chigi e l’opposizione che resta decisa da parte della sinistra radicale - ma anche le mozioni e le manifestazioni già annunciate per Gaeta (da cui peraltro è già previsto uno sgombero), e per Taranto (che dovrebbe divenire la nuova base della sesta flotta). Senza contare l’irrituale - quella sì - presa di distanza dall’alleato americano in occasione dei raid in Somalia in aiuto al governo legittimo contro gli uomini di Al Qaida.
Troppi distinguo, insomma. Il «caro Max» non è più quello che permise a Clinton di bloccare gli eccidi in Kosovo. «Pare più un uomo di partito che di governo - fanno sapere dall’ambasciata di via Veneto - e convinto di dover tenere comunque unita tutta la sinistra».
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