Alessandro M. Caprettini
nostro inviato a Riga
«I Paesi Nato devono accollarsi anche i compiti difficili» ruggisce George W. Bush. «Se non ce la facciamo in Afghanistan, tutto il mondo sarà meno sicuro», avverte Tony Blair trascinandosi dietro il premier danese Rasmussen per il quale «non possiamo vacillare», pena larroventarsi dei tentativi di destabilizzazione. E anche Chirac concede qualcosa: «Serve che i Paesi europei si rafforzino militarmente, per esser capaci di oneri militari».
Ma Prodi e DAlema non parlano lo stesso linguaggio. Né si piegano a quello che pare più di un invito da parte di Jaap de Hoop Scheffer: «Sono sicuro che alla fine anche lItalia appoggerà la linea che tutti gli alleati si debbano mobilitare per chi è più in difficoltà», dice il segretario generale della Nato, alludendo ai «caveat» ovverosia ai divieti che hanno fin qui consentito alle nostre truppe in Afghanistan, ma anche a tedeschi, spagnoli, francesi di evitare il combattimento nel sud del Paese, là dove è più forte la pressione talebana e dove britannici, canadesi e olandesi finiscono spesso nel mirino.
«Limpegno militare non è la sola risposta possibile. Noi pensiamo ad un impegno politico forte e di alto profilo», scandisce Prodi arrivando nella capitale lettone per il consueto summit biennale Nato. Lo mette subito in chiaro il presidente del Consiglio che non darà né un uomo né un soldo in più per la missione Isaf e che secondo lui occorre procedere semmai al coinvolgimento dei Paesi confinanti (tra cui il solito Iran) per studiare un compromesso applicabile. E lo dice, subito dopo aver fatto ingresso al centro olimpico dove si tiene il summit, in un faccia a faccia con Scheffer: «Non possiamo essere noi sul banco degli imputati. I nostri impegni erano stati già stabiliti».
Il perché del nostro doppio no - per più truppe e per un trasferimento nel Sud, in zona operativa - prova a spiegarlo Massimo DAlema, giunto a Riga qualche ora prima del premier, proveniente dalla Finlandia: «Non credo che Scheffer si rivolga allItalia - dice dei lamenti del segretario generale sulla scarsità di uomini, mezzi e dellabbondanza dei divieti alle truppe europee - ma semmai a quei Paesi che hanno in Afghanistan una presenza solo simbolica. LItalia è già tra i Paesi più impegnati in molte zone e non credo che lopinione pubblica capirebbe un ulteriore impegno militare».
Fuori dai denti, il ministro degli Esteri fa capire che se lo stillicidio che colpisce oggi canadesi e inglesi dovesse riguardare i nostri militari inviati laggiù (quasi 2mila uomini) sarebbe difficile restare a Kabul e Herat come invece si vuol fare per non lasciare «il Paese in mano ai talebani».
Ma cè una seconda verità, questa nascosta, che preoccupa forse maggiormente tanto Prodi che DAlema. La richiesta che i nostri possano finire in prima linea, se accettata, urterebbe fragorosamente contro le urla di Giordano, Diliberto e compagni che anche ieri si rincorrevano facendo sapere come dallAfghanistan sarebbe meglio ritirarsi al più presto anziché discutere integrazioni militari. Così, tra un «facciamo già tanto» e un «non possumus», magari pronunciato solo nei confessionali del faccia e faccia, Prodi, DAlema e Parisi insistono sulle alternative. Parlano di conferenza, accettano lidea di Chirac per la creazione di un «gruppo di contatto» che saldi intervento militare e ricostruzione civile - come si fece in Kosovo - rilevano che violenza e insicurezza crescono e che dunque serve altro tipo di risposta rispetto a quella delle armi.
Dallaltra parte però insistono. Il comandante supremo della Nato Jones freme sulla necessità di eliminare le «restrizioni» nazionali al combattimento decise da alcuni Paesi: «Rallentano i tempi e rendono tutto più costoso e difficile, senza contare che ci costringono a contattare altri Paesi perché inviino truppe». Scheffer non demorde: «Siamo 26 Paesi alleati, inimmaginabile che non ci sia mobilitazione a favore di chi si trova più in difficoltà». E Bush è perentorio come suo solito: «Limpegno è battere i talebani e rafforzare la democrazia». Ma Prodi e DAlema, assieme a Parisi, scuotono il capo con pensosa gravità. Non cè solo lintervento militare. Serve altro. Serve semmai - come puntualizza il premier parlando del possibile maggior impegno italiano - una iniziativa «forte e di alto profilo». Quale? Non si sa.
Afghanistan in primo piano, come pareva scontato.
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