La Nazionale non giochi col lutto

Quella del pallone è una classe dirigente senza classe le cui facce di sempre hanno deciso che la Nazionale giocherà sabato a Glasgow contro la Scozia con il lutto al braccio. Quasi a sottolineare che la coscienza collettiva del calcio abbia una sorta di obbligo nel riempirsi sempre più di rimorsi. Il presidente federale Giancarlo Abete ha spiegato la decisione come testimonianza di rispetto per Gabriele Sandri e la sua famiglia, pur sottolineando che la morte del tifoso laziale non ha alcun legame con la violenza presente nello sport, «di cui il calcio è una vittima e non il protagonista», e che l’uccisione di «Gabbo» è stato «un fatto accidentale».
Che di fronte alla morte si sia tutti uguali - e ci mancherebbe - e che sia dovuto il rispetto per la tragedia della famiglia Sandri non può essere messo in discussione. Non esistono dissonanze.
Ma perché gli azzurri devono indossare il simbolo del lutto? Perché alla Nazionale viene imposta una scelta così plateale per ricordare la fine di un povero ragazzo? La dirigenza del calcio si è uniformata a una classe politica di governo che è in perenne emergenza ma che non vuole essere impopolare. Uno stato di crisi continuo, quasi un vestito sempre di moda da indossare come un’abitudine, con le frasi di rito e gli esercizi di equilibrismo sovente arditi per affermare in contemporanea l’estraneità del mondo del calcio al colpo di pistola sparato da un agente di polizia e la necessità di mostrare i muscoli e prendere decisioni che si pretendono «forti e significative».
Così, come nove mesi fa (caso Raciti, l’ispettore di polizia ucciso a Catania), rispunta fuori la formuletta «tolleranza zero» e si riparla di tornelli aperti, socchiusi, chiusi, tifosi violenti ai quali vengono vietate le trasferte (ma chi sono? quando? da quando?), biglietti nominativi, stadi «filtrati». E a muso duro la signora ministra Melandri pretende che il calcio si fermi (era accaduto dopo l’omicidio di Vincenzo Claudio Spagnolo a Marassi nel ’95, non per quello di Vincenzo Paparelli all’Olimpico nel ’79). Viene accontentata, ma soltanto per le cose che contano meno: così niente serie B e serie C domenica prossima. Mentre il lutto al braccio imposto a chi rappresenta l’Italia sui campi di calcio va a completare la «coraggiosa» decisione con la quale la Federazione trasforma un simbolo di dolore in un segno di protesta. Contro chi, non è dato sapere.
Ancora una volta c’è chi sfrutta la cronaca nera per cavalcare una campagna demagogica. Si tende a confondere e a far diventare questione unica due fatti ben distinti: la morte di un uomo ucciso dalla fatale leggerezza di un Rambo in divisa e l’assalto delinquenziale alle forze dell’ordine da parte di gruppi che ormai sono persino una cosa diversa dagli ultrà. Quanto successo domenica scorsa a Milano, a Roma, a Bergamo, a Taranto dimostra che non si ha a che fare con una frangia impazzita del tifo calcistico che va isolata. Non si tratta più del ricatto alle società per gestire il business delle curve.


Il mondo del pallone, però, quella fascia nera imposta agli azzurri a Glasgow è come se se la mettesse sugli occhi per non vedere - o forse non voler capire - quanto sta avvenendo. Disposto - nell’inseguimento alla popolarità - a dar via tutto. A cominciare dalla dignità.
Mario Celi

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