Inquietanti interrogativi si pongono da quando – in una recente intervista – il criminologo Federico Carbone, consulente della famiglia Mandolini, ha sostenuto che apparati d’intelligence americani fossero a conoscenza dell’omicidio dell’incursore Marco Mandolini (massacrato il 13 giugno 1995 nei pressi di Livorno) con 24 ore di anticipo rispetto alla data ufficiale della morte. Un’informazione, questa, raccolta tra il 2019 e il 2020 da una fonte tutt’ora coperta, ma che sappiamo essere una donna americana, generale dell’esercito USA, di stanza a Camp Darby e già in attività all’epoca dei fatti. La donna – molto vicina ad ambienti della Cia – il 12 giugno del 1995 avrebbe visto un’informativa sulla scrivania di un suo superiore in cui si annunciava la morte di un incursore italiano. Per quale motivo la Cia fosse interessata a Marco Mandolini – e, soprattutto, perché lo fosse 24 ore prima della morte – non è domanda da poco. La risposta potrebbe riscrivere non solo una verità mai raggiunta su un caso di cronaca nera particolarmente efferato, ma potrebbe aggiungere tasselli fondamentali alla comprensione di un periodo particolarmente complesso della storia italiana, un decennio che va dalla seconda metà degli anni Ottanta alla prima metà degli anni Novanta. Nel tentativo di fare luce su questa storia, siamo tornati a intervistare il criminologo Carbone.
Dottor Carbone, qual è lo stato dell’arte delle indagini della procura di Livorno sulla morte di Marco Mandolini?
Bisogna attendere che il procedimento giunga a determinate fasi per poi richiedere quelle che sono state le ulteriori investigazioni. Di sicuro sappiamo che l’opposizione all’archiviazione, presentata circa un paio di anni fa e accolta, ha fatto sì che la procura intraprendesse delle indagini nella direzione che noi avevamo indicato all’epoca. Mi riferisco al cercare meglio nei rapporti e nelle possibili frequentazioni tra Marco e gli ambienti dei servizi segreti. Ma anche nei rapporti tra Marco e coloro che erano presenti nella lista Fulci [Francesco Paolo Fulci, tra il 1991 e il 1993 segretario generale del Cesis. Nel 1993 redige una lista in cui indica 15 sottufficiali della VII Divisione del Sismi come appartenenti alla Falange armata, nda]. In qualche modo, alcuni di quei nomi erano realmente in stretto contatto con Marco. Inoltre, abbiamo ripreso verbali anche di altri procedimenti, alcuni presso la procura di Roma, che riguardavano la morte di Vincenzo Li Causi. In particolare, una deposizione di un militare del Tuscania [Paolo Belligi, nda], il quale fece riferimento ad una voce di corridoio secondo la quale la morte di Li Causi sarebbe da attribuire a coloro che erano presenti nel mezzo. Tra i presenti c’era anche un membro della Settima Divisione e della lista Fulci. Un altro amico di Marco, anch’egli presente nella lista Fulci, ebbe un ruolo cruciale in alcune tappe dell’indagine iniziale. Questo amico – denunciato da Marco per questioni legate alla droga - sostenne che Marco gli avesse fatto delle avance, di fatto accreditando la pista dell’omicidio maturato in un contesto omosessuale.
Parliamo della fonte americana. La procura di Livorno è stata informata?
Quando presentammo l’opposizione all’archiviazione, la fonte era ancora al vaglio per capire se fosse credibile o meno. Al momento tanto io quanto Francesco Mandolini, che fu il primo a raccogliere la testimonianza di questa donna, abbiamo chiesto audizione diretta alla Procura di Livorno, ma non abbiamo ancora avuto comunicazione.
Quali potrebbero essere gli sviluppi di questa nuova pista?
Quando decisi di incontrare personalmente la fonte, questa mi confermò quanto avesse già rivelato a Francesco, ovvero il fatto che loro – con “loro” intendo esercito americano, intelligence Usa – fossero a conoscenza di un omicidio proprio sulla scogliera del Romito 24 ore prima che l’evento si verificasse in maniera ufficiale. Voglio però fare una precisazione. Più che retrodatare l’orario dell’omicidio - che comporterebbe uno stravolgimento del lavoro investigativo della nostra procura - io propenderei più verso la presenza di una notizia, di una dinamica di cui loro erano a conoscenza. Di un omicidio premeditato che l’intelligence Usa, in qualche modo, conoscesse già per la cooperazione con quegli stessi uomini che facevano parte di un servizio segreto in qualche modo collegato alla Nato (e anche alla Cia, se vogliamo). Del fatto che loro sapessero del disegno orchestrato. Ecco, secondo me, a cosa si riferisce la fonte. Lei vide una velina, un documento sul tavolo di un ufficiale che faceva riferimento ad un’operazione di questo tipo.
L’operazione era in corso, già avvenuta o doveva verificarsi?
Si sarebbe verificata. Di sicuro si verificò, perché questo generale l’apprese due giorni dopo e fece una correlazione con la dinamica dell’omicidio. Marco è stato portato, o si è fatto sì che si ritrovasse in quel luogo, affinché si propendesse per la pista omosessuale perché si infangasse il suo nome. Il punto esatto in cui è stato trovato [la scogliera del Romito, nda] era un luogo malfamato. Evidentemente già c’era un disegno dietro questa vicenda per far sì che tutto si bollasse frettolosamente, come è stato fatto, come delitto maturato nel contesto omosessuale.
Ma perché gli apparati d’intelligence americani si sarebbero interessati di una vicenda che coinvolgeva un militare italiano?
Probabilmente la risposta la troviamo nei comuni interessi che Italia e Stati Uniti hanno avuto in Somalia. Gli uomini che hanno compiuto l’omicidio erano probabilmente legati alle vicende del paese africano. Ed è forse per questo che gli americani si sono interessati alla vicenda.
Alla Somalia è legata anche questa fonte americana. Se si è fatta avanti spontaneamente, secondo quanto da lei riferito nella precedente intervista, è solamente perché si è identificata nel dolore e nella tenacia di Francesco Mandolini, il fratello di Marco. Anche lei, infatti, avrebbe perso due fratelli in terra somala nei primi anni Novanta. La domanda è: perché decidere di parlare dopo tanti anni? Ha parlato, secondo lei, con l’approvazione della struttura in cui è integrata o si è esposta anche ad un rischio professionale?
Si è esposta professionalmente ad un rischio senza che la struttura sapesse nulla. Lo ha fatto probabilmente mossa da una motivazione ideologica. L’ho notato anche dall’osservazione, dalla comunicazione non verbale, da come appariva coinvolta durante il nostro confronto… Analizzando il suo modo di raccontare la vicenda mi ero reso conto che fosse una persona ancora emotivamente scossa, sia per la morte dei fratelli, ma anche per altre questioni. Lei mi raccontò, ad esempio, che si era ritrovata a camminare in campi in Somalia in cui erano presenti morti con deformazioni, forse frutto dei rifiuti tossici.
Lei ha accennato al fatto che questa fonte abbia fatto delle rivelazioni anche sulla strage di Capaci.
In una delle nostre conversazioni mi fece capire che anche a Capaci erano coinvolti loro. Non so in quali termini precisi, ma l’ha fatto intendere. Quando parlo di loro parlo della struttura, quindi della Cia.
Questo generale americano potrebbe essere chiamato a testimoniare dalla procura oppure scomparirà nel nulla e non si potrà dare riscontro alle sue affermazioni?
Valuteremo di coinvolgerla sicuramente. Poi sarà la procura a decidere in merito. Per ora era importante saggiarne la veridicità, cosa che abbiamo fatto. Che provenga da quell’ambiente è certo. Lei ci aveva chiesto di mantenere l’anonimato, ma vista la gravità delle sue affermazioni diventa difficile tenere fede alla parola.
Sulla base di quello che sta dicendo – e che ha affermato anche il procuratore capo di Lagonegro Gianfranco Donadio, che molto ha indagato sulla stagione stragista – sembrerebbe che una cellula illegale della Cia, composta da personale italiano, a sua volta legato ai nostri apparati d’intelligence, abbia operato parallelamente a Cosa nostra. La stessa struttura la troviamo nel libro di Fabrizio Gatti, “Educazione americana”, una sorta di romanzo/non romanzo in cui un presunto agente italiano di questa cellula racconta le sue scorribande nel Belpaese. Aggiungiamo uno spunto ulteriore: in una recente intervista, Riccardo Sindoca, personaggio interessante con una vasta conoscenza in ambito d’intelligence Nato, ha fatto cenno all’esistenza – in seno alla VII Divisione del Sismi – di cosiddette “Sezioni Ombra”. La stessa informazione e la stessa denominazione, in tempi non sospetti, l’avevamo raccolta presso una nostra fonte riservata. Un quadro caleidoscopico e inquietante. La domanda è: davvero in Italia ha operato questa cellula o queste cellule?
Parto dalla fine. Si è tanto parlato della famigerata “Sezione K”, cellula di soldati super addestrati integrata all’interno della VII Divisione. Ma di queste “Sezioni ombra” si sa ancora poco. Eppure qualcuno, come dice lei, comincia a parlarne. Di certo erano composte da membri della VII Divisione del Sismi, personale con un livello di addestramento tale da poter essere impiegato in missioni particolarmente complicate. Questo non vuol dire certo che tutti i membri della VII Divisione fossero impiegati in queste sezioni. Venendo invece alla prima parte della domanda, all’esistenza e all’operatività di questa cellula facente capo in qualche modo alla Cia – o a una sua emanazione – la risposta è si. Non solo la struttura è esistita. Esiste ed è ancora operativa. Può cambiare nome, può cambiare strategia, ma il modo di operare è sempre lo stesso. E non solo in Italia. Anche i fatti attuali potrebbero trovare, in qualche modo, delle chiavi d’interpretazione diverse rispetto a quanto si tende frettolosamente a trasmettere. La stessa fonte, quando ci fu l’attentato ai mercatini di Strasburgo [11 dicembre 2018, 5 morti, nda] mi disse allusivamente, di aver ricevuto un suggerimento da parte di alcuni suoi amici. Qualche giorno prima le avevano detto di non andarci, come invece aveva in programma di fare.
Sostiene che questa struttura sia ancora operativa. Ha mai avuto problemi nella sua attività di ricerca su delega della famiglia Mandolini?
Più volte, sia in ambito investigativo che da uomini appartenenti alle istituzioni, mi è stato chiesto di avere la massima cautela. Mi hanno informato circa i rischi che si corrono nel trattare indagini come questa. Sono stato messo in guardia più volte.
Ci sono stati episodi che però ancora non hanno trovato un riscontro diretto con la mia attività, come il ritrovamento di proiettili fuori dalla mia abitazione. Questo episodio specifico è avvenuto poco più di una settimana fa.
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