Siamo tutti in mostra, anzi: in vetrina. Senza rendercene conto, ci siamo trasformati in oggetti che si auto espongono sui social alla ricerca del consenso. Del like su Facebook e del cuoricino su Instagram. È la dittatura del "mi piace" alla quale ci sottomettiamo volentieri pur di veder aumentare i nostri follower. Pur di sentirci qualcuno, anche se solamente in quel mondo etereo che è la rete. E poi? Che cosa resta dei like? Che cosa resta delle challenge, le sfide che i più giovani fanno in rete? Spesso nulla. Talvolta la morte. Tempo fa era la blackout challenge a dominare: si tratteneva il fiato fino a svenire, rigorosamente in diretta. Per alcuni ragazzi, come Leon Brown (14 anni), è stata fatale. Stessa sorte toccata a Jacob Stevens Greenfield, deceduto dopo aver assunto più di 12 pastiglie di antistaminico nel tentativo di avere delle allucinazioni. Sanqiange, celebre influencer di Hong Kong, è morto dopo aver bevuto sette bottiglie di Baijiu, un potente alcolico. E l'elenco di ragazzi che ci sono rimasti secchi potrebbe continuare. Anzi, si potrebbero aggiungere altri casi dove influencer, o aspiranti tali, pur senza volerlo, hanno ammazzato qualcuno.
Casal Palocco, Zona sud di Roma. Il 14 giugno un suv Lamborghini piomba contro una Smart Forfour, che ha a bordo una donna e i suoi due figli, un maschio di cinque anni e una femmina di tre. Lo schianto è terribile. Sul bolide ci sono cinque ragazzi, che usciranno dall'auto indenni. Lo schianto ammazza il bambino, ferisce gravemente la piccola e distrugge una famiglia intera. La dinamica dell'incidente non è ancora chiara. Tuttavia, i video caricati sui social dai giovani, I borderline, parlano di una sfida. "Sta macchina va più veloce de' Saetta McQueen", dice uno su Tik Tok. "Mamma mia, mi sembra de' cavalcare un drago", prosegue. Poi il tragico sfottò: "Ma questo con la Smart che sta facendo? Abbello la tua macchina costa 300 euro al Conad, la mia un miliardo, vale quanto Amazon". Sarà proprio una Smart la macchina contro la quale si schianteranno.
L'obiettivo del collettivo era quello di vivere per 50 ore sulla Lamborghini e diversi testimoni hanno detto di aver visto quella macchina sfrecciare per le vie della città già dal giorno prima. Volevano testimoniare tutto. Volevano provare il brivido di correre su quel missile proprio come fanno i calciatori e la gente che ce l'ha fatta. Volevano documentare la loro impresa per darla in pasto ai loro 600mila follower. Hanno ammazzato un bambino, hanno distrutto la vita a una famiglia intera e pure le loro stesse esistenze.
Colpa solo de I bordeline? Sì e no. Sì perché ognuno è responsabile delle proprie azioni. No perché questi giovani hanno semplicemente scelto la via più facile: quella degli influencer. Dei soldi facili fatti con i like e le dirette. Hanno scelto la via della Vetrinizzazione (Bollati Boringhieri), per citare il titolo del bel libro di Vanni Codeluppi che spiega come, dal Settecento in poi, qualcosa è cambiato nelle nostre vite grazie a delle piccole finestre in vetro attraverso le quali guardare la merce in esposizione. A partire da quel momento, non erano più le persone ad avere delle esigenze da soddisfare ma erano i commercianti a creare nuove attrazioni e nuovi bisogni. Bisognava sfoggiare la ricchezza (i borghesi stavano prendendo il sopravvento sui nobili) e crearla. Una rivoluzione silenziosa che ha avuto una accelerazione grazie agli smartphone, attraverso i quali è possibile mettere tutto in vetrina. Pensate a 15 anni fa. Se aveste detto di voler scattare una foto al vostro pranzo per condividerla con i vostri follower vi avrebbero preso per pazzi. A chi può interessare quello che mangi? A chi può interessare dove vai in vacanza? A tutti e a nessuno. E così ci affrettiamo a mostrare in diretta dove siamo, con chi e perché (e addio privacy). Ci scattiamo, novelli narcisi, delle foto per raccontare cosa stiamo facendo ai nostri seguaci. Ma l'algoritmo dei social è infido. Vuole spingerti sempre oltre per mostrare i tuoi contenuti agli altri. E così prendono piede le challenge e i selfie estremi, come scrive Codeluppi: questa pratica si "è attirata numerose critiche. Essa, infatti, è stata a volte accusata d'indurre molte persone ad adottare dei comportamenti rischiosi. Una ricerca pubblicata nel 2018 dalla rivista scientifica Journal of Family Medicine and Primary Care ha dimostrato però che in tutto il mondo tra il 2011 e il 2017 ci sono stati 259 morti per selfie, cioè persone che hanno perso la vita a causa d'incidenti accaduti loro mentre cercavano di scattarsi una foto 'estrema'".
Dalle foto estreme ai video estremi il passo è breve. E doloroso. Si dice che la nostra è la società di Narciso, dell'uomo che continua a guardarsi nella pozza d'acqua per contemplare la sua stessa immagine, fregandosene di ciò che accade attorno a lui. È così. Ed è difficile uscirne.
Forse esiste un solo modo ed è stato ipotizzato da Claudio Risé: donarsi. Mettere la nostra vita al servizio di qualcosa o di qualcuno. E farlo di nascosto, solamente perché è bello e giusto così. Senza video. Senza selfie. Soli, con solo il nostro cuore a testimoniarlo.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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