Nei "Fratelli corsi" un Dumas che non avete mai letto

Ripubblicato un piccolo capolavoro dello scrittore francese dimenticato sin dagli anni trenta

Fantasmi e vendetta. Paesini abbarbicati sui colli che guardano il mare, macchia mediterranea e fucilate. E ancora, case-castello dove vivono bellissime dame, fratelli gemelli legati da oscuri vincoli di sangue, una guerra tra la civiltà moderna, malamente importata dalla Francia, e gli arcaici rituali di un'isola dove l'onore è tutto, dove l'onore è uccidere (cosa ben diversa dall'assassinare).
Questa è la Corsica, terribile e meravigliosa, raccontata da un Alexandre Dumas (padre) che probabilmente non conoscete. Sì, perché di Dumas sono rimasti soltanto maschere di ferro e moschettieri guasconi, al massimo conti di Montecristo e tulipani neri. Colpa anche della critica, che ha spesso derubricato, con una certa fretta, questo gigantesco autore al rango di narratore facondo e di facile presa, ma di scarso spessore, ben poco attento alla profondità dei personaggi, all'osservazione della realtà. Così, nella memoria collettiva, è rimasto solo il tintinnar di spade.
Ecco perché I fratelli corsi (Donzelli, pagg. 150, euro 19,50, traduzione di Alessia Piovanello), romanzo breve che in Italia non veniva più pubblicato dagli anni Trenta, può essere più che una piacevole sorpresa. In poche velocissime pagine, di prosa asciutta e scattante, Dumas ci racconta lo stridente contrasto fra modernità e passato, gioca con il tema del doppio, così caro al romanzo inglese, e affronta (non senza duello) i nodi gordiani dei vincoli di sangue e della vendetta.
La trama è semplice. Dumas parte narrandoci un suo immaginario viaggio nella Corsica del 1841 - recarvisi davvero era uno dei suoi sogni - dove, giunto nel paesino di Sollacaro, lo scopre coinvolto in una tremenda faida nata per il banale furto di una gallina (su questo non dovette lavorare molto di fantasia: questa avicola «vendetta» ottocentesca è ancora tra le leggende raccontate ai turisti). Nel chiedere ospitalità ai de Franchi, unica famiglia non toccata dagli ammazzamenti (pardonne moi, «legittime uccisioni»), fa la conoscenza con Lucien, il prototipo dell'uomo d'onore. Lucien corso sino al midollo nell'aspetto, «capelli e occhi neri, la carnagione brunita dal sole, piuttosto piccolo di statura», e nei modi, «il suo colpo d'occhio era rapido e sicuro come quello di ogni uomo la cui vita dipende talvolta da un'occhiata», ha, però, un fratello gemello che ha lasciato le aspre rupi dell'isola per recarsi a Parigi. E questo gemello, Louis de Franchi, ha scelto di abbandonare i vecchi usi, non ha mai nemmeno toccato un'arma da fuoco, è diventato avvocato. Vive nella borghesissima Parigi da dove si spende affinché il fratello si presti a far da paciere (la pace in Corsica è considerata sempre un po' per debosciati) tra le fazioni in lotta.
Ma, a sorpresa, sarà proprio il fratello francesizzato, nonostante l'inutile aiuto di Dumas (inteso come personaggio del romanzo), a essere coinvolto in una vicenda sensuale, torbida e carica di morte. Le sue illusioni di civiltà termineranno in un tragico duello, prova provata che i moderni, in fondo, sono solo dei selvaggi che uccidono con più malizia. Toccherà a Lucien riportare la giustizia a Parigi, non senza aiuti ectoplasmici degni del miglior Edgar Allan Poe.
Non è però il caso di rovinare il finale al lettore. Basti ribadire che fra le tante suggestioni del romanzo c'è il contrappunto - giocato forse con qualche eccesso - fra la Corsica onesta, selvaggia e cruda e la Ville Lumière, in cui l'apparenza è ferocemente ingannevole (tema quest'ultimo che sarà ereditato e scavato da Dumas figlio nelle sue opere). Così come il tema della giustizia, legato anche al soprannaturale, assume, in una narrazione con connotati di forte realismo, un aspetto diverso da quello dei romanzi di cappa e spada dove Dumas sembra soprattutto giocare con gli «effetti speciali».
In coda al romanzo il lettore troverà una piccola sorpresa: I due studenti di Bologna, un racconto lungo che Dumas scrisse nel 1849 e che in Italia praticamente non è mai arrivato. E in questa narrazione dimenticata, in cui fa capolino anche il compositore Rossini, di nuovo torna il tema del legame affettivo che supera le barriere della morte. E se in questo caso la vena narrativa è più spuria e meno felice di quella dei Fratelli corsi, resta il fatto che questo è un altro pianetino ignoto dell'immensa galassia letteraria di questo autore.

Un pianetino autobiografico e importante a partire proprio da quello che Dumas dice nella prima pagina: «Non so dire se, dopo la mia morte, resterà qualcosa di me; tuttavia, per ogni evenienza, ho preso la pia abitudine, dimenticando i nemici di intrecciare il nome dei miei amici... con la mia vita letteraria. In tal modo... trascino con me tutto quello che ha fatto parte del mio passato».

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