Nel 1955, a un giornalista di Film Revue, disse di aver scritto una raccolta di poesie «senza eguali nel suo tempo». László Benedek, il regista ungherese di Morte di un commesso viaggiatore, che a Hollywood aveva diretto Marlon Brando ne Il selvaggio, gli aveva appena offerto la prima parte importante, per quanto infima. Kinder, Mütter und ein General (passato in Italia come All'est si muore), racconta gli ultimi, drammatici giorni del Terzo Reich. Per Klaus Kinski fu una specie di nemesi: diciassettenne, arruolato nella Wehrmacht, tentò la diserzione; fu arrestato dai britannici nei Paesi Bassi. Imparò lì, in carcere, i rudimenti del teatro, e la diserzione più letale: quella dal sé. La madre, Susanne Eva, era morta durante un bombardamento alleato; il padre, Bruno, farmacista con velleità da tenore, era deceduto in un campo di prigionia, in Cecoslovacchia.
A quell'epoca, Kinski portava un viso apollineo, volitivo, da divinità ferina. Compiva 29 anni, aveva cominciato recitando François Villon, Goethe e Nietzsche; in una delle sue tante, incompiute, autobiografie, Leben bis sommer 1952, scrisse di sentirsi un redivivo Rimbaud, «nella sua sanguinosa sconfitta, nella sua rabbiosa fame di vita, nella critica incessante di tutto». Scrisse di scrivere «più di dieci poesie al giorno».
L'ispirazione poetica, sorta dalle tenebre del secondo dopoguerra, avvelenò Kinski per una manciata di anni, fino al '56, quando dalla crisalide del poeta sbocciò l'attore, enigmatico, che mesmerizzava gli astanti. L'acme accadde nel 1949: ridotto in un ospedale psichiatrico, sgangherato dall'elettroshock, Kinski scrive un poemetto di irosa potenza, Irrenhaus, Manicomio. Chi parla è l'irredento radiato dal convegno umano, il reietto deragliato dagli sputi («Essi mentivano e scatarravano bava/ sul mio cuore infranto e avvilito/ atomizzavano il tormento del mio spirito/ dicendo d'accarezzarmi l'anima»). In una terzina di orfica intensità, Kinski delinea il proprio destino: «Io avevo solo lacerato la mia vita,/ gettato il mio corpo tra le vampe/ per sfuggire alla follia degli uomini!».
In sostanza, Manicomio è una specie di infernale via crucis che fonde i toni della sacra rappresentazione medioevale al cupo rombo delle ballate di Antonin Artaud. Novello Cristo, Kinski è «un maiale sbollentato» alla catena, viene scortato «come un cannibale» mentre «una civetta funesta,/ mi pisciava in faccia come un cane/ addomesticato». Il Cristo/Kinski subisce ogni oltraggio possibile «Io vengo pesato come un tozzo di pane/ trascinato a forza mentre occhi di iena/ valutano il mio corpo malconcio» mentre avanza l'invettiva contro la viltà dell'uomo: «Ah, tutti voi che vivete e al mattino vi risvegliate liberi/ non dimenticate i chiodi che portate nei cuori/ quelli come voi sono fatti per schernire/ che stramazzi ancora una volta Cristo!».
Più che altro, Manicomio pare la pièce di un mostro, di un dio marziale e carnivoro, creatura solare capace di eclissarsi nel proprio opposto, infantile bandito. Si ode qui, l'incanto di Nosferatu e di Fitzcarraldo, la violenza di Aguirre e di Cobra Verde. Agli occhi di Bruce Chatwin, Kinski era per sempre «un adolescente...tutto in bianco, con una criniera di capelli gialli».
La vicenda delle poesie di Klaus Kinski è nota. All'epoca, l'attore frequentava Thomas Harlan, il figlio di Veit Harlan, regista di Süss l'ebreo, il più noto cineasta del Terzo Reich. I due, negli anni Cinquanta, s'imbarcano come mozzi a Marsiglia, direzione Haifa. Kinski lascia la valigia con i manoscritti a casa di un amico; non tornò più a riprendersela. Riemersi presso una casa d'aste di Monaco nel 1999, i manoscritti lirici di Kinski vengono acquistati da Peter Geyer e trovano una prima sistemazione editoriale per Eichborn Verlag, nel 2001. Cinque anni dopo Suhrkamp pubblica Jesus Christus Erlöser und Fieber: il libro risulta fuori catalogo. Dal 2014 la più importante casa editrice tedesca stampa Kindermund, resoconto autobiografico in cui Pola Kinski racconta di essere stata regolarmente violentata dal padre.
Klaus Kinski, così, resta il terrorista della poesia occidentale, un paria alle lettere: nessuno osa pubblicarlo. In Italia, si prende cura dei suoi testi, con dedizione autenticamente sovversiva, Antonio Curcetti. Nel 2012 ha pubblicato su Poesia un servizio, Febbre. Diario di un lebbroso (n. 271; memorabile la copertina, con Kinski giovanissimo, d'efebica ferocia, e corona d'alloro in cranio); poi si è messo a fare da sé. Nel 2018, per la fittizia «nessuno editore», pubblica come Febbre un'antologia di poesie di Kinski, fuori commercio. Al samizdat poetico, ha aggiunto, ora, un tassello prodigioso: la traduzione integrale di Manicomio (come sempre, l'edizione è fuori commercio; info: info.nessunoeditore@tim.it). La plaquette è inghirlandata da sovracopertina e da alcune immagini tratte da Der rote Rausch, film di Wolfgang Schleif del 1962, con Kinski che sversa in urla, nella parte del maniaco.
Alcuni libri è bene che viaggino così, clandestini, di mano in mano la poesia, questa cosa così lieve, troppo importante per stare stivata in una libreria, miseria tra altre merci, deve spargersi tra filatteri di candele e coltelli, nei sottoscala, cosa proibita, cibo per massacrati dal mondo, per vitalisti invalidi a questo vivere.
Quando, nel 1971, Klaus Kinski mette in scena un suo testo lirico, Jesus Christus Erlöser, fu un disastro. Alla Deutschlandhalle di Berlino il pubblico lo contesta, lo crocefigge al suo dire, se ne va. Il tour previsto fu prevedibilmente annullato. Mai Cristo fu così demoniaco. Vent'anni dopo, Klaus Kinski morirà in solitudine, da tutti inviso, nella casa di Lagunatis, California. Dicono che fu il cuore a cedere. Non si può vivere ogni giorno come un Rimbaud in estro.
«Vorrei uscire per le strade e aiutare la gente, e alleviare il loro dolore», aveva scritto, ragazzo. Voleva sanare e finì per distruggere il bene si contrariò, contraendosi nel suo contrario. Si dice: levare il dolore addolorando. Il bacio sfinì nel morso, perché è questa la maledizione del vampiro.
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