La mutazione è avvenuta quando tutti dormivano. Come è successo che si è persa la chiave, quella che ti permetteva di decifrare le cose del mondo? Non è facile definire il quando e il dove, di certo c'è solo che ci siamo ritrovati dannatamente smarriti. In questa storia c'è una studentessa perfettina che non si sa dove sia finita, una ripetente seriale fascista immaginaria e il suo amico scanzonato che ama il Crispy McBacon, una poliziotta che assomiglia a Rosa Fumetto, un ispettore al confine della pensione, un professore con un dolore troppo grande per credere in qualcosa, un collega vanitoso che si nutre di complotti, una ex preside che sognava la rivoluzione, un bidello bibliotecario e anarchico con un passato di simpatie malavitose e tutti si muovono in uno specchio di illusioni disegnato da Morgana.
Il gioco (Solferino, pagg. 416, euro 19) di Giovanni Floris viene spacciato come «giallo», ma lo è solo nella tecnica narrativa, perché poi è una giostra, una sciarada, una caccia al tesoro, un romanzo sociale che racconta il deragliamento umano del nostro tempo e, sottotraccia, soprattutto una confessione. Quando si ha a che fare con un personaggio pubblico il pregiudizio è dietro l'angolo. Non c'è voglia di dare peso a un giornalista televisivo: cosa avrà mai da scrivere? È un errore. Il Giovanni Floris da salotto tv è una finzione. Quello vero è qui. È il narratore, e passo dopo passo lo riconosci, perché c'è la sua voglia di raccontarti storie fuori canone, con lo sguardo del sociologo che non si prende sul serio, con il disincanto di chi è cresciuto al tramonto delle ideologie e non ha mai smesso di guardare la realtà con una strafottente ironia. È per questo che la sua è una confessione. È nella deriva del professor Pastore o nello sguardo ironico di Momo, che ha imparato presto a non prendersi sul serio ed è lì che Giovanni ha incarnato il ragazzo che era.
C'è Roma, dimenticata e invisibile, con i suoi angoli magici, con le sue strade dove ogni nome è una storia, scritta e rinnegata. È qui che si svolge il gioco. È la mappa e ti porta da piccoli angoli di una Tiburtina che non ti aspetti fino a via dei Baullari e ti rendi conto che quelli sono anche i luoghi del cuore di Floris, i segni di una vita. È la città eterna che sta lì, davanti agli occhi, ma che ci si ostina a non vedere, come se tutto quell'incanto fosse esagerato per gli occhi umani, impossibile da sostenere, stralunante e lisergico.
Il gioco non è soltanto una mappa, un «tuttocittà» da esplorare, ma è immerso nel mondo delle idee, in una sorta di metaverso letterario. È l'immaginario di Giovanni Floris, i suoi testi sacri, i passi della sua formazione da rabdomante. Il punto di partenza è The Narrative of Arthur Gordon Pym of Nantucket di Edgar Allan Poe. Non un horror, ma il noumeno di horror. L'essenza. E poi la fantascienza classica, pezzi di Aldous Huxley e William Blake, deragliamenti di William Burroughs e Ezra Pound, immersioni ne La sera domenicale di Elsa Morante, fino a toccare David Foster Wallace e Franzen e Coe e Roth, Cent'anni di solitudine e Viaggio al termine della notte. Non è una biblioteca da mettere in scena di martedì.
È privata e da condividere se ne vale la pena, non con le maschere della sera. L'intuizione di fondo è lineare: la miseria della televisione e dei social nasce dalla resa della scuola. La soluzione del giallo è lì, in quella sconfitta, nelle pieghe di una disillusione.
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