I tempi della procura non sono quelli delle tv e dei giornali. Il capo dell’ufficio Francesco Verusio riceve i giornalisti nel pomeriggio e annuncia: «Non ci sono nuove iscrizioni nel registro degli indagati. Sarò io a chiamarvi al momento opportuno». Verusio non vuole fare il passo più lungo della gamba. Il gip ha già dato uno schiaffo all’impianto accusatorio, decidendo di non convalidare il fermo del comandante Francesco Schettino e concedendogli gli arresti domiciliari. Intendiamoci: le accuse restano tutte sul tavolo e le responsabilità di Schettino paiono di un’evidenza quasi solare. Ma è meglio non correre. Prima di andare avanti è bene approfondire, rileggere gli interrogatori che si sono susseguiti senza soluzione di continuità, pesare tutti gli elementi raccolti. C’è da preparare il ricorso al tribunale del riesame: Schettino, per la procura, deve stare in carcere e non a casa sua. Però è chiaro che l’inchiesta è ormai a un bivio: la tragedia dev’essere addebitata solo e soltanto al comandante e al suo staff? Oppure Schettino ha in qualche modo giocato di sponda con chi sulla nave non era? In procura stanno passando alla moviola quel che è accaduto fra le 21.42, il momento del botto, e le 22.58, quando finalmente con uno scandaloso ritardo le sirene suonano a ripetizione e i passeggeri sono invitati a lasciare la Concordia. Il comportamento di Schettino in quei 76 minuti non è affatto lineare. I sospetti, tutti da verificare, si accavallano. Alcuni testimoni, in particolare un maître, sostengono che fosse in compagnia, nei minuti che hanno preceduto la collisione, di una gentile signora che non aveva saputo resistere al fascino della divisa. Si parla con insistenza di una romena, o un’ungherese, non registrata ufficialmente, che l’avrebbe seguito fin sull’ingresso della plancia di comando. Forse, il famoso e maldestro inchino, che ha provocato la terrificante sciagura, era anche un omaggio all’avvenente signora. L’avvocato Bruno Leporatti, difensore del comandante, smentisce: «Schettino era al suo posto e con lui non c’erano signore o signorine amiche». Ma i controlli vanno avanti. L’audio delle telefonate registrate, per quel che vale, restituisce anche un tono di voce fra l’alterato e l’impastato. Forse, il comandante aveva bevuto qualche bicchierino di troppo? Il narcotest, effettuato con colpevole ritardo, diraderà i dubbi.
Ma il punto più delicato è quello relativo alle telefonate intercorse fra Schettino e un supermanager della Costa, Roberto Ferrarini, responsabile dell’Unità di crisi e del controllo Flotta. Un titolo altisonante, ma in sostanza la persona adatta, a terra, per cercare consigli e una possibile via d’uscita al dramma ancora in corso. Fra le 22.05 e le 22.58 Schettino e Ferrarini si parlano almeno tre, forse quattro volte. Saranno i tabulati a raccontare l’esatto percorso delle conversazioni. Gli investigatori partono da un elemento certo, quasi ovvio: dopo le ripetute chiamate al telefono - e non è nemmeno chiaro se sia stato sempre il «marinaio» a cercare il suo interlocutore o il contrario - a bordo regna sempre il caso. Schettino minimizza, Schettino non dà l’ordine di evacuazione, Schettino alle 22.26, con la Concordia ancora dritta, chiede addirittura un rimorchiatore. Il comandante temporeggia sconsideratamente e i pm vogliono vederci chiaro: questa strategia è stata costruita dentro la nave o è stata pensata altrove? L’indagine insomma potrebbe allargarsi alla compagnia armatrice o rimbalzare dentro la Concordia. Almeno due ufficiali, oltre a Ferrarini, sono nel mirino di Verusio: il secondo Dimitri Ckristidis e il terzo Silvia Coronica.
Verusio va avanti, senza correre. Aspetta i risultati delle autopsie e gli esami, in contraddittorio, della scatola nera.
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