Giovanni Testori, Franco Zeffirelli, Gabriele Lavia, e con loro tanti altri: nomi, volti, corpi. Andare a teatro significa sempre andare «da» qualcuno, qualcuno di cui ci fidiamo, qualcuno da cui è bello andare. Qualcuno che ci farà tralasciare i soliti pensieri per offrirci pensieri nuovi, nuove prospettive. A teatro infatti si va non solo per «vedere» qualcosa ma anche per «essere» qualcosa.
Il Teatro, nelle epoche in cui si è imposto, ha sempre rappresentato uno scatto in avanti della civiltà umana. Greco o giapponese, elisabettiano o africano, tragico o comico, leggero o d'impegno, il Teatro incarna quel momento, centrale in tutte le civiltà, in cui l'uomo si sottrae alla logica del conflitto mimetico (tu fai così, allora io faccio cosà, come nel mondo tribale, che non è mai morto) e si pone in una posizione «terza» rispetto al conflitto stesso: inizia a guardarlo da una posizione nuova, che non è più una delle parti in causa nel dramma bensì un osservatorio esterno ad esso.
Il dramma si consuma, produce le sue vittime, ma chi guarda è invitato a un pensiero nuovo: mai più guerra, mai più dolore, mai più equivoci, mai più vittime. Il dramma si chiude con una pacificazione talvolta ilare, altre volte mesta, sempre necessaria, che parte dalle tavole del palcoscenico e giunge là dove nascono tutti i conflitti: in ciascuno di noi.
Il Teatro è dunque un rito, non un'azione solitaria: è fatto di una scena e di una platea, e lo spettacolo scaturisce dal rapporto tra queste due realtà. Per questo a Teatro bisogna andarci, mettere un bel vestito, uscire la sera, incontrare altre persone - conosciuti, sconosciuti - per dare vita a una liturgia comune.
Insomma, il Teatro è qualcosa in più di un semplice spettacolo dal vivo. Dopo due anni di pandemia, le sale tornano cautamente a riempirsi. La gente ha voglia di uscire, di partecipare a qualcosa. Libertà è partecipazione cantava Giorgio Gaber, e mai come in questo tempo, tra Covid e guerra, noi sentiamo la verità di queste parole.
Esser parte di qualcosa. Della vita di tutti, in primo luogo: per questo, almeno nelle grandi città, i ristoranti sono sempre pieni. Tutti siamo stati segnati dalla paura e dalla solitudine e abbiamo un grande bisogno di incontrarci.
La pandemia ha favorito in tutti i campi la solitudine, la parcellizzazione dei rapporti. Netflix ha sostituito la sala cinematografica, lo smart working (spesso mantenuto anche dopo la fine dell'emergenza sanitaria) ha sostituito l'ufficio. E il metaverso rischia di sostituire ogni relazione umana fisica, sesso incluso. Qualcuno ha detto che il grande problema del prossimo futuro sarà quello di persuadere la gente ad alzarsi dal divano.
Ma la vita è un'altra cosa. Un essere umano non si conosce solo se ha tutto a disposizione, se il mondo si trasforma in una grande Alexa. Per conoscere noi stessi dobbiamo uscire, incontrarci, ascoltare, guardarci in profondità, e questo non è possibile se siamo soli.
Il Teatro cerca di rispondere a questo bisogno essenziale. Lo fa attraverso le pagine di uomini vissuti duemilacinquecento anni fa oppure vivi e in salute, voci venute dall'altra parte del mondo o dal nostro pianerottolo; lo fa con la bravura degli attori, con i loro corpi e le loro azioni da cui scaturiscono le parole - le stesse parole scritte su un libro e rinate qui e ora, identiche e nuove, nella voce e nel cuore di qualcuno che ci sta davanti.
Lo fa con l'amicizia che si stabilisce, inevitabilmente, tra attori e pubblico, tra i corpi degli attori e i corpi degli spettatori, affinché lo spettacolo esista. Il Teatro mi ha dato tanti amici, tante persone a me care, che potrei elencare qui. Persone che hanno determinato il corso della mia vita grazie, anzitutto, alle parole e alla voce che mi hanno gettato dal palcoscenico.
A Teatro ci sono i camerini, dove è possibile portare mazzi di fiori alle
protagoniste. Ma quando vivremo nel metaverso, a chi porteremo i fiori?, a chi diremo la nostra ammirazione?, e poi: saremo ancora capaci di ammirare qualcosa?Perciò viva Testori, viva Zeffirelli, viva Lavia e viva il Teatro.
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