Chi ritiene che le elezioni di mid-term possano causare un grave rivolgimento nella politica americana, specialmente nella strategia internazionale, si sbaglia, e di molto, per due ragioni. Primo, perché il «governo diviso», cioè il controllo della presidenza a un partito, in questo caso il repubblicano, e la maggioranza nel Congresso in mano all’altro partito, il democratico, è la regola fisiologica negli equilibri politico-istituzionali degli Stati Uniti. Secondo, perché in politica estera la maggiore democrazia occidentale è solita procedere con accordi bipartisan, soprattutto quando si tratta di affrontare le questioni della sicurezza nazionale e internazionale, leggi il terrorismo, o di uscire da una crisi strategica come quella in cui si è infilata la presidenza Bush a Bagdad.
Il voto ha significato un successo, non una valanga, per i democratici in prima istanza perché l’elettorato conservatore e moralista, tendenzialmente vicino ai repubblicani, è rimasto in parte a casa di fronte agli scandali finanziari e personali che hanno colpito diversi esponenti del partito dell’elefante. Ed è proprio su questo fronte che si devono aspettare delle svolte radicali che sono reclamate dalla maggioranza dell’opinione pubblica di tutte le tendenze. Sulla politica estera, invece, a me pare che non sono alle viste mutamenti radicali. Innanzitutto per il fatto che il presidente Bush ha da tempo modificato il suo atteggiamento, mettendo da parte l’aggressivo unilateralismo che aveva caratterizzato il primo mandato presidenziale sotto la spinta teorica dei neoconservatori. Le dimissioni del segretario alla Difesa, Donald Rumsfeld, stanno a significare una parziale autocritica sul modo in cui è stata gestita la guerra in Irak dopo, e non prima, il defenestramento del tiranno Saddam.
Resta tuttavia il punto fermo della lotta al terrorismo sulla quale convergono non solo i repubblicani, bushiani e non bushiani, ma anche gran parte dei democratici d’ogni orientamento che sono consapevoli come la difesa dell’Occidente e dei suoi valori debba ancora rappresentare la missione intorno a cui si deve stringere l’intero popolo americano. È assai probabile che nei prossimi mesi il presidente e i leader democratici del Congresso cerchino, insieme e concordemente, una comune strategia di uscita morbida dall’Irak che preservi una onorevole immagine per gli Stati Uniti con il minimo danno sia per la presenza americana nel Medio Oriente che per gli islamici iracheni e no che vogliono contrastare il terrorismo. È nell’aria il cosiddetto piano di uscita redatto dal segretario di Stato di Bush padre, James Baker, insieme con il deputato democratico Lee Hamilton che si muoverebbe in questa direzione.
Un’ultima osservazione. In molti, in Italia, sono andati ripetendo che sotto Bush si era verificata una involuzione autoritaria. Se pure ce ne fosse il bisogno, le elezioni di mid-term con il successo degli avversari del presidente, dimostrano quanto effimera fosse questa critica dozzinale rivolta all’amministrazione repubblicana.
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