"Non c'è fuga dall'inferno ma dalle prigioni sì"

L'autore di "La furia" racconta l'evasione di un ragazzo da una colonia penale dominata da abusi e violenza

"Non c'è fuga dall'inferno ma dalle prigioni sì"

«Ho spulciato i giornali locali per dieci anni e ho scoperto questo tentativo di evasione di 55 ragazzini, nel 1934. Cinquantaquattro erano stati riacciuffati. E così, il giornalista che è in me ha autorizzato il romanziere a scrivere del cinquantacinquesimo, quello che non è stato mai ritrovato». Nel 1934, Belle-Ile-en-Mer, al largo della Bretagna, era già la colonia penale per minorenni più famigerata di Francia: in teoria un centro per orfani e bambini abbandonati; in realtà, un campo di prigionia, di violenze e abusi. È lì che lo scrittore francese Sorj Chalandon, per decenni inviato di guerra, ha ambientato il suo romanzo La furia (Guanda, pagg. 336, euro 19), dando al fuggiasco il nome di Jules Bonneau, detto «La Tigna».

Sorj Chalandon, perché ha scelto questa storia?

«Perché non sono uno storico e, in questo caso, neanche un giornalista, ma un bambino che è stato picchiato. Ho scritto questo romanzo come un bambino che ha rischiato di finire in quella colonia penale. Negli anni '60, mio padre mi minacciava di spedirmi a Belle-Ile; poi la colonia penale ha chiuso nel 1977 e, siccome non ci sono mai finito, mi sono detto che avrei voluto rendere omaggio ai ragazzi che vivevano in quelle condizioni e fingere di essere accanto a loro».

Perché suo padre voleva mandarla lì?

«Mi diceva: Perché non riveda più la tua sporca faccia. Belle-Ile era situata su un'isola nell'oceano: era impossibile fuggire. Perché mi minacciava? Perché prendevo un brutto voto, perché gli rispondevo, perché non abbassavo gli occhi e lo guardavo, perché volevo proteggere mia madre quando la picchiava».

Chi c'era a Belle-Ile?

«Lì venivano mandati gli orfani, i vagabondi, quelli che non andavano a scuola o i bambini di cui i familiari volevano disfarsi: non delinquenti o criminali, soltanto ragazzini di cui la Francia e le famiglie volevano liberarsi. E che non avevano diritto alla giustizia, a un processo, a nulla».

Che luogo era?

«Una colonia dura, una vera galera: i bambini venivano picchiati e lavoravano gratuitamente. I carpentieri costruivano le bare per il loro compagni, perché non c'era modo di uscirne: o morire, o compiere i 21 anni».

Nel romanzo c'è molta violenza, anche nei personaggi positivi.

«Questa violenza l'ho vissuta, sulla mia pelle: sono uscito dalla violenza praticando la violenza. Non sono un autore che riesca a scrivere di un pugno in faccia se non lo ha ricevuto: la violenza a Belle-Ile è una metafora di quella esercitata su di me da mio padre, e che conosco a memoria, perché l'ho vissuta».

Perché ha deciso di scriverne?

«Per difendermi da questa stessa violenza, quella della colonia e quella della mia famiglia. Non saprei come evitare la violenza, scrivendo di una colonia penale dove dei bambini di 12 anni sono stuprati da degli adulti e da dove, se riescono a fuggire, lo fanno di fronte alla violenza, attraverso la violenza».

Come ne è uscito?

«È estremamente duro, per me, essere un papà: per fortuna ho tre figlie femmine. E c'è un motivo per cui sono inviato di guerra: mi sono svuotato di tutta la violenza che mio padre ha esercitato su di me, perché ho affrontato una violenza perfino peggiore».

Che cos'è la furia del titolo?

«In francese il titolo è l'infuriato. La furia salva questo ragazzino. Tutta la rabbia di cui parlo nei miei libri è questa furia per sopravvivere: rinunciare sarebbe come morire».

La sua «battaglia»?

«Sì. Costante. E la prima battaglia è quella verso me stesso. Dobbiamo sempre cercare il bastardo in noi: per capire l'altro devi capire e lottare contro te stesso».

Come quando Jules lotta contro «la Tigna»?

«Avrei voluto intitolare il libro così, ma la tigna è una malattia un po' ripugnante, fa impressione. Quando Jules lotta contro la Tigna, è l'infuriato a combattere: per me, colui che prova rabbia è quello che combatte ogni tipo di ingiustizia, mentre la tigna è ingiusta».

Che cos'è?

«La cattiveria, il disprezzo verso gli altri, l'egoismo, l'io solo io, il non riconoscere i propri errori, il non dubitare mai. A un certo punto, Jules aiuta i più deboli: la Tigna non lo farebbe mai. È grazie ai marinai che lo aiutano, che la Tigna si trasforma e diventa l'infuriato».

La libertà che cos'è?

«Innanzitutto Jules deve varcare il muro per liberarsi dalla prigione; poi deve liberarsi dalla Tigna; infine, fuggire dall'isola. Sogno che, un giorno, possa liberarsi anche della sua ira. Io ho 72 anni e ancora non mi sono liberato di tutta questa furia: spero di farlo, ma senza rinunciare ai motivi che la alimentano».

Si può fuggire dall'inferno?

«Dall'inferno in quanto tale, no. Da quello creato dall'uomo, sì. Uno può evadere dai campi di prigionia, ma non da ciò che ha visto; può fuggire dalla guerra, non da quello che ha fatto; dall'infanzia, ma non dai colpi ricevuti. E io non voglio fuggire: sono la sommatoria di tutti i colpi, la paura, la cattiveria, la violenza che ho vissuto e che ancora nutrono la mia collera. Sono stato un bambino picchiato, sono un uomo ferito, ma va bene così: non voglio cambiare. Se dimenticassi tutto, sarebbe come se nulla fosse successo e ci sarebbe il rischio che accadesse di nuovo».

Perché nel libro appare Prévert?

«Perché c'era. Jacques Prévert era sull'isola in vacanza, quando ci fu l'evasione. Questa è una cosa incredibile che ho scoperto quando avevo già scritto metà del romanzo, parlando con un mio amico bretone. In Francia impariamo i versi di Caccia all'adolescente come fosse una favoletta, invece ho capito tutta la drammaticità di quella poesia. Quando ho saputo che era stato lì ho pianto».

Che cos'è la giustizia?

«Per me è quella che protegge e cura».

Esiste?

«Se esistesse, non dovrei scrivere romanzi».

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