Le note di Pizzetti per il martirio di Becket

Per parlare di un'opera come Assassinio nella Cattedrale, sacra rappresentazione del tempo moderno, la persona più adatta sarebbe un teologo. Che infatti, in ambito Amici della Scala (Angelo Foletto), si materializza nella figura di Franco Giulio Brambilla. Tuttavia attorno alla vexata quaestio del martirio si cimenta anche il teatro. Nel nostro caso la tragedia di T.S. Eliot «Murder in the Cathedral» (1935) nella versione musicata da Ildebrando Pizzetti (1958). Il compositore scrive su libretto proprio ricalcando modernismo e metro di Eliot. Al quale l'idea di un lavoro su Tommaso Becket, arcivescovo di Canterbuty, viene all'indomani della crisi che lo consegna al cristianesimo. Pizzetti, sedotto dal dramma, fa passare un ventennio prima di decidersi. Poi, a 77 anni, scrive la sua undicesima opera. Praticamnete un monologo, la vicenda interiore di uno che, come sottolinea razionalmente Eliot «torna in patria, intuisce che sarà ucciso, è ucciso». Il protagonista è un basso (Ferruccio Furlanetto) attorno al quale ruotano preti, coro, tentatori, cavalieri. La vicenda (siamo nel 1170)riprende il rapporto tra Tommaso Becket ed Enrico II di Inghilterra, insistendo sullo scontro tra potere temporale e spirituale. Una dicotomia attualissima che forse parte proprio da Tommaso: cancelliere del re e suo fedelissimo, quindi vescovo di Canterbury e difensore dei diritti ecclesiastici persino contro lo stesso papa. Per Yannis Kokkos, che firma l'allestimento di questa sera (ore 20) alla Scala (un ritorno a quaranta anni dell'ultima ripresa e cinquanta dalla prima del 1958), il fulcro del lavoro è appunto il rapporto stato-chiesa. Sebbene molta parte venga monopolizzata dal tema del martirio. Bene assoluto, dono per chi sa dimenticare sè stesso e farsi partecipe del volere di Dio. Kokkos ricorre alla etimologia. In greco martirio significa anche testimonianza. Tommaso è testimone della realtà del soprannaturale e, una volta dismessi orgoglio, ambizione e volontà, diventa il martire che muore per il popolo. Consapevole e senza dramma. Sempre Kokkos assimila la struttura pizzettiana a quella della tragedia greca, avverte il Fato che riconduce al primo Eschilo. Le scene, con qualche concessione alla natura, mostrano interno ed esterno della cattedrale. Edificio che si disgrega in mille lame di luce colorate alla morte di Tommaso. Ma la rovina non significa sconfitta della chiesa. Alla fine gli assassini che uccidono avvinazzati quasi a fuggire l'enfasi, affermano di aver agito per le ragioni del re, e che più che di assassinio è giusto parlare del suicido di «un grande uomo» dalla mente malata. Un muro di incomunicabilità. L'opera poggia su uno strumentale cupo e di ottoni e bassi, utilizza un declamato sillabico di stampo gregoriano, esplosioni sinfoniche, ariosi, interventi del coro femminile e poi misto, echi latini di devozione popolare. L'impianto è diatonico. La stratificazione chiede molto al coro (Bruno Casoni) e al direttore: Donato Renzetti, uno che più nostro non potrebbe.

Conservatorio di Milano, buca della Scala come percussionista, folgorane vittoria al Cantelli '80 con relativa, esaltante, Quinta di Caikovskij. Carriera internazionale ma soprattutto aiuto di Gianandrea Gavazzeni. Il padre dell'Assassinio che debutta alla Scala con la sua direzione. Insomma un Assassinio quasi di prima mano.

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