Milano - Centoventunomilamiliardi di lire. Più o meno 60 miliardi di euro. Una cifra difficile anche solo da immaginare, oltre che da pronunciare. Circa trenta volte il pacchetto di incentivi varati per salvare dalla crisi il settore auto, o il doppio di quanto si è speso per l’Alta velocità tra Milano e Bologna. È la stima di quanto sia costato all’Italia il no al nucleare. Tre miliardi all’anno per vent’anni. Una stima prudente, considerata troppo bassa da molti. A cominciare da chi, per primo, l’ha elaborata.
Era il 1987 quando l’Enel calcolava in 121 mila miliardi di lire il costo della sostituzione dell’energia atomica con quella prodotta bruciando idrocarburi. La cifra è dunque vecchia di più di venti anni, non tiene conto dell’inflazione, ma parimenti neanche del fatto che all’epoca il greggio costava 10 dollari al barile, mentre oggi viaggia come un fulmine tra i quaranta e i 147 del luglio scorso.
«Con il petrolio ai valori attuali», calcolava un anno fa Paolo Fornaciari, presidente onorario dell’Associazione nucleare italiana, «quel costo oggi può essere stimato in oltre 200 miliardi di euro». La stima, di per sé già spaventosa, diventa inimmaginabile considerando i «costi accessori». Perché, nell’italia dei comuni denuclearizzati, c’è un posto in cui l’atomo si fa ancora sentire: nella cassetta delle lettere. In bolletta infatti continuiamo a pagare i costi legati allo smantellamento delle quattro centrali atomiche di Latina, Trino Vercellese, Caorso e Garigliano. Costi legati, oltre ai lavori sugli impianti (la dispendiosissima chiusura del ciclo del combustibile nucleare) anche agli oneri verso le imprese per le interruzioni dei contratti.
A maggio 2008 l’Authority per l’Energia calcolava questa spesa in 420 milioni di euro all’anno. Ogni anno. Dal 1988. E non è finita. Ogni gennaio 60 milioni vanno via per compensare comuni e provincie in cui sono presenti rifiuti nucleari, mentre un miliardo tondo è finito nella casse di Sogin, società creata per la gestione del dopo nucleare e delle scorie.
Cifre che non si esauriranno presto, anzi: il lavoro dello smantellamento di Caorso, per esempio, è solo al 6% di realizzazione. Tanto che gli esperti ritengono ancora possibile il riavvio dei reattori. Forse, anche alla luce del nuovo corso inaugurato con l’accordo con la Francia, si farà davvero. E, sempre forse, senza troppi problemi da parte dalla popolazione: il 59% dei partecipanti al sondaggio quotidiano di Sky Tg24 si è detto ieri favorevole ad avere una centrale nucleare vicino casa. Tutto sommato dunque 60 miliardi di euro sono davvero una stima prudente. Soprattutto perché non prendono in considerazione i costi, quelli sì, davvero incalcolabili, indiretti. Ovvero la perdita totale delle competenze specifiche nel campo della fisica nucleare (eravamo leader fino agli anni settanta, oggi siamo fermi a zero) e la ridotta competitività delle nostre aziende rispetto alle loro concorrenti estere (un ditta italiana paga 11,66 euro per chilowattora, una inglese 7,72, una francese 5,08).
Ma già che parliamo di valori ipotetici, immaginiamo cosa l’Italia avrebbe potuto fare se non avesse dovuto privarsi di una cifra simile: avrebbe potuto dotarsi di 15 centrali nucleari di terza generazione, avrebbe reso indipendenti dal punto di vista energetico quasi 20milioni di italiani (dotando le loro case di impianti fotovoltaici), avrebbe potuto costruire due miracoli dell’ingegneria come la «diga delle tre gole», appena completata dal governo cinese. Invece questo mare di denaro è stata dissipato.
Il tutto sulla scia della paura di un’altra Cernobyl.
Il tutto senza sottrarsi del resto al rischio di un’altra Cernobyl, visto che siamo circondati dalle centrali di Francia, Slovenia, Svizzera, Germania. E raramente le radiazioni vengono fermate alla frontiera.
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