Le nuove armi di Bush

Le nuove armi di Bush

Qualche buona notizia dal «fronte», molte iniziative importanti e, forse, la novità principale: Bush forse ha un nuovo piano. Finalmente, per imprimere una svolta agli eventi nell’area più pericolosa del pianeta. È una sensazione che si diffonde a Washington, più liberamente ora che il Congresso se n’è andato in ferie per preparare sì le battaglie di settembre contro l’Amministrazione ma anche per riflettere e rivedere i propri, di piani. Le buone novelle che vengono dall’Irak non sono di grande entità e potrebbero rivelarsi una volta di più delle oscillazioni momentanee.
In questo quadro rientra facilmente la leggera diminuzione delle perdite americane nel mese di luglio, compensata però da un aumento nel penultimo trimestre e da statistiche che continuano ad essere assai gravi sul sangue che sparge in Irak la guerra etnica e settaria. Più consistente è l’indicazione che nelle province a maggioranza sunnita cresce il rigetto dell’infiltrazione di Al Qaida o dei gruppuscoli integralisti che ad essa si ispirano. Resistenza anche armata, probabilmente più efficace che non le misure dell’esercito iracheno, tuttora sbilanciato nelle sue strutture in favore degli sciiti. Qualcosa comunque sembra andare finalmente nel verso giusto, ed era tempo, soprattutto perché una svolta positiva agevolerebbe l’attuazione di una decisione che a Washington ormai sarebbe stata presa anche se non sarà per molto tempo ancora annunciata: il graduale disimpegno dall’Irak e un riorientamento delle strategie americane. Già visibile anche nelle cifre imponenti, negli stanziamenti per gli aiuti militari ad altri Paesi dell’area: i 30 miliardi di dollari per Israele, i 20 miliardi all’Arabia Saudita (compresi navi e aerei lanciamissili, ma anche apparati antimissilistici e «bombe intelligenti»), i 13 miliardi all’Egitto e la cifra da definire alle strutture militari di uno Stato palestinese che questa volta dovrebbe davvero nascere.
Meno soldati Usa a Bagdad, più forza nel complesso dell’area. Un disimpegno che non dovrebbe sfociare in una ritirata ma in un rafforzamento strategico. A che scopo? Ogni alleanza nasce contro un nemico e il «grande progetto» formulato da Condoleezza Rice e soprattutto dal ministro della Difesa Robert Gates riguarda evidentemente l’Iran e la sua scommessa nucleare che Bush è più che mai deciso a far fallire e a dedicarvi l’ultimo anno e mezzo della sua presidenza. Rafforzando le difese militari, stimolando la nascita di una alleanza inedita: che comprenda Israele e la maggior parte dei suoi vicini arabi, nemici da più di mezzo secolo. Non soltanto Paesi come l’Egitto e la Giordania che con Israele hanno imparato a convivere, ma anche, stavolta, l’Arabia Saudita, guida spirituale (e finanziaria) dell’Islam sunnita contro l’affacciarsi di una super potenza regionale sciita poggiata oggi sul petrolio e domani sull’atomica. Difesa e, forse, controffensiva. Che può articolarsi in diversi modi: attraverso sforzi intensificati per rovesciare il regime degli ayatollah con strumenti politici ed economici oppure un’azione militare preventiva. Essa non prenderebbe comunque le forme dei conflitti terrestri dopo l’esperienza negativa dell’Irak e dell’Afghanistan ma semmai quelle di una azione aerea prolungata e intensa. La prima opzione troverebbe un consenso diffuso, contro la seconda si sono già levati i democratici, che alla riconvocazione del Congresso chiederanno alla Casa Bianca «garanzie» che le gigantesche forniture di armi siano ad «usi difensivi e non preludio a una pericolosa avventura».
Una diffidenza che non può essere presa sottogamba perché il Congresso, a maggioranza democratica, se non ha il potere (e lo ha dimostrato ampiamente) di fermare e concludere un conflitto in corso dispone però di quelli legislativi e potrebbe bloccare quelle forniture d’armi a Paesi «amici» che costituiscono il nerbo del progetto. Che però è già visto con molta più simpatia dai repubblicani, moderati o conservatori tradizionali. Quelli che da tempo premono per un ritorno a una «politica realistica» nel Medio Oriente che metta nel cassetto il progetto ambizioso di imporre con la forza regimi democratici nell’area e torni a basarsi sulle esigenze gemelle della «sicurezza» attraverso la «stabilità». Una transizione non facile ma che potrebbe essere agevolata dal «disgelo» che dopo tanti anni sembra di nuovo profilarsi fra Israele e i suoi vicini arabi, a cominciare dai palestinesi.

Almeno gli eredi di Arafat oggi fedeli ad Abu Mazen e uniti oltre che dal timore di una super potenza petro-nucleare iraniana, anche dall’esperienza così vicina e così bruciante dell’integralismo di Hamas.
Alberto Pasolini Zanelli

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