La guerra civile del tempo libero

Il futuro rischia di passare per il reddito universale. Attenti però all’ozio delle masse

La guerra civile del tempo libero

La macchina intelligente è una promessa di tempo libero. La fine del lavoro come una speranza o una maledizione.
Tutto questo grazie all’aiuto del replicante, quello che calcola con una velocità che non sappiamo raggiungere, quello che prevede, suggerisce, ci affianca, con la precisione che riduce gli errori, quello che fatica al posto nostro, senza sentire la fatica. È lui che cambia profondamente la struttura della società. È lui il soggetto che ci rende inutili. È lui che ci regala tempo e toglie lavoro. È il manager e l’impiegato. È l’operaio, il tassista, il camionista, il badante, il cameriere, l’insegnante, il muratore, il revisore dei conti, l’idraulico, l’elettricista, il bancario, il rappresentante e qualsiasi colletto bianco, il tecnico di qualsiasi cosa e sì, anche giornalisti e affini.
Ci saranno altri lavori? Forse, ma non copriranno quelli persi. È da qui che bisogna partire, anche se non si conoscono i confini di questo viaggio. La consapevolezza in questa storia conta parecchio.
La prima certezza è che il capitalismo globale delle macchine intelligenti non può permettersi la scomparsa del consumatore. I costi di produzione saranno sempre più bassi, ma se non c’è qualcuno che compra, la merce resta invenduta. Non si fanno profitti con le scorte di magazzino. Il consumatore, infatti, acquista se ha un salario o una rendita. Questa rivoluzione, più profonda dell’invenzione del telaio meccanico e della motrice a vapore, è l’ultimo atto di quel percorso iniziato con la rete di internet e con la svolta di Google (database globale) e delle piazze virtuali. Il McKinsey Global Institute sostiene che metà dei posti di lavoro umani potrebbe essere sostituita dalla macchina entro 20 anni. Il Fondo Monetario Internazionale parla del 40 per cento, ma in meno tempo.
Queste comunque sono solo ipotesi e, in fondo, si sta qui a divinare il futuro, qualcuno è più ottimista, altri sono pessimisti. La domanda fondamentale, quella che potrebbe fare paura, è se siamo davvero alla fine del lavoro. Se nei prossimi cento anni ci si ritroverà a fare i conti con grandi masse senza occupazione. È, appunto, una rivoluzione sociale e economica. Che fare? C’è chi ritiene inevitabile il ricorso al reddito di cittadinanza universale, per tutti, anche per chi ha un lavoro, per non creare differenze e conflitti.
È la soluzione più diretta per salvare le masse salariali e, quindi, il consumatore globale.
Tutto questo non è chiaramente a costo zero. Il primo è economico: chi paga il reddito universale? Gli Stati probabilmente cercheranno di coinvolgere i grandi gruppi privati che faranno immensi profitti grazie all’intelligenza artificiale. Non è un caso che si stia da qualche tempo ragionando sull’idea di trasferire buona parte della tassazione dagli umani alle macchine. Sembra uno scenario distopico, ma non rifletterci su sarebbe un errore. Da qualche parte le risorse per il reddito universale d’altra parte andrebbero trovate. Qui si apre però uno scenario piuttosto inquietante.
Un secondo di pausa. Qual è la scintilla della democrazia? Su quale principio si chiede al sovrano di rinunciare a una fetta di potere assoluto? L’origine potrebbe essere l’articolo 12 della Magna Charta, ovvero del provvedimento che il re d’Inghilterra Giovanni Plantageneto (il Giovanni Senzaterra di Robin Hood) fu costretto a concedere ai baroni del Regno, il 15 giugno 1215. Sono solo quattro parole: no taxation without representation. È il cardine delle libertà in cui si riconoscono i patrioti della rivoluzione americana. È la rivolta del tè di Boston.
Caro sovrano, se pago le tasse ho diritto di dire la mia in parlamento. Il fisco come richiesta di democrazia. Ora, con il reddito universale, avviene il fenomeno opposto. È uno specchio. È il «sovrano» che ti paga e, a quel punto, la rappresentanza diventa una sorta di favore. Se la tua sopravvivenza dipende dalla carità di Stato, che voce ti resta per rivendicare i tuoi diritti?
La promessa, lo scambio, diventa allora il tempo libero. È la liberazione dal lavoro. È la fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. È il punto finale dell’alienazione. La fine del lavoro salariato ti permette di coltivare i tuoi veri interessi. C’è chi va a pescare, chi legge, chi scrive, chi lavora il legno, chi pensa e chi semplicemente si gode l’ozio quotidiano.
Come Marx scrive nei Grundrisse l’individuo si sottrae, finalmente, al «serpente delle sue pene». È appunto la visione del singolo.
È la speranza di un essere umano migliore, condizionata dalle speranze di un filosofo ottocentesco che ha segnato i secoli a venire. È strano, però, che l’ozio creativo di Marx scantoni per una volta dalle masse. È l’io che sogna di emanciparsi dalla schiavitù del lavoro. Cosa faranno le masse?
Non è detto che siano tanto diverse da quelle urbane del primo secolo avanti Cristo. È la Roma di Cesare e Pompeo. È la Roma della plebe che sopravvive grazie al grano della Repubblica e passa il tempo a bestemmiare questo e quello nella calca del foro. È la Roma di Milone e di Clodio, due fazioni in lotta perenne nelle strade e nei crocicchi, una che tiene per gli optimates, l’altra per i populares. Una guerra civile tra ultrà. Clodio, fratello della Lesbia di Catullo, fu ucciso a Bovillae sulla via Appia. Milone cade dalle mura nell’agro Turino, colpito da un sasso degli assedianti. La guerra civile invece sembra continuare secolo dopo secolo.

È il tempo libero che si fa binario e ideologico, proprio come adesso, nella stagione dei social. È il tempo libero non degli individui, quelli che oziano e creano, quelli che vanno a pescare, ma delle piazze dove tutto è politica.

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