Le nuove invasioni barbariche

Saranno forse i giorni più lenti dopo il ritorno dalle vacanze, quando la città ancora vuota, invita a perdere tempo. Ma in questa pausa di fine agosto viene la nostalgia di riandare a spasso per le strade, nei luoghi dove la memoria ci rassicura. Ma questo risentirsi a casa che resta un rito indispensabile non funziona più. Si vaga increduli, nell'inutile ricerca di un viso consueto o del bar dove si perdeva tempo da ragazzi o della scaletta dove si era tentato il primo bacio. A ogni rientro sempre peggio. Solo bangladini in vagare estraneo, bar di arabi, cinesi intenti nei loro avidi segreti e amerindi ad ogni angolo orinanti. Quel vagare che ci quietava in una patria di piccole cose e gesti non c'è più. Altra gente e tra tende rotte di negozi sempre più impoveriti, chiese tra le immondizie, ci si accorge di quanto le cose vadano male. Gli immigrati hanno una produttività ridicola, aumentano solo la nostra povertà media. Peggio sono amalgamati nel migliore dei casi dalle musiche o dai film americani: non c'è un'idea di Italia che li pieghi alla sua cultura, alle sue regole.
Ai ricchi la cosa non interessa molto. Sovente hanno i soldi e le ville proprio non avendo altro, sradicati appunto dalle gioie degli avvezzi alle piccole cose. E i politici si perdono in parole incomprensibili, distratti pure loro da quella urbanità concreta che in Italia invece conta da sempre più di tutto. Altri popoli d'Europa hanno un'amministrazione efficiente per istinto, come accade agli inglesi; la meraviglia per la natura e i silenzi degli svedesi; la presunzione nazionale che tormenta i francesi. Ma noi no. L'anarchismo e la varietà dei nostri talenti ci avevano però dato almeno la meraviglia delle nostre città. Ognuna intenta nel litigio di mantenersi diversa, covare il proprio genio con esiti imprevedibili, tuttavia mirabili. Ma adesso senza ricambio. Perché è evidente, nei loro istinti gli immigrati sono meno viziati dei nostri giovani che in posa da concerto o da velina vagano inebetiti a disturbare le nostre notti.
Insomma le tribù germaniche che invasero l'Italia erano poche centinaia di migliaia di persone, un'inezia rispetto a quel Terzo Mondo che invade le nostre città e le deforma. Esso compiace i ricchi sui loro yacht perché serve a tenere bassi i salari, e così scoraggia il lavoro degli italiani sempre più perciò debosciati. Non più difesi però dalle sinistre, le quali si beano di covare le invidie degli immigrati e mutarle in voti per loro. Altro che contravvenzioni ai lavavetri. Perdendo le città, donandone le case e le strade più intime, noi perdiamo più degli altri europei. Le città italiane, piccole patrie, covi irrinunciabili di sentimenti, surrogano da sempre i difetti dell'amministrazione o del nostro carattere. Ne raccolgono il meglio da secoli. E la loro fine estinguerà perciò la nazione, nella sua civiltà e nella sua lingua. E come me, passeggiando estranei nelle nostre città, in molti credo si saranno al ritorno sconfortati. C'è un difetto peggiore del debito o della crisi demografica che non impedì tra l'altro le meraviglie del Rinascimento. Sta svanendo una civiltà cittadina nostra.

E rivengono in mente i trapassati: non solo quelli morti per la patria in guerra, ma gli avi di chiunque, recenti o lontani. Possibile che lascino fare? Non ci inducano a una qualche rivoluzione, ch'è la sola maniera ora per salvarci?
Geminello Alvi

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