ODA JAUNE L’artista che ama i musei di guerra

Ha cambiato nome per averne uno solo suo, ha fatto una figlia con un uomo che può essere suo nonno. Ogni mossa della pittrice fa discutere: ora è in Italia

ODA JAUNE L’artista che ama i musei di guerra

Di tutte le «sculture» che il bulgaro Georgi Danowksy ha realizzato, la più riuscita e delicatamente sensuale è la figlia, Oda Jaune, cresciuta a libri d’arte invece che favole. E concepita come il frutto di una spinta ideoplastica, di un impeto artistico oltreché erotico. Ma la delicatezza di questa pallida bruna bizantina trae in inganno come le sue opere che hanno suggerito il titolo della mostra personale a lei dedicata dalla Fondazione Mudima in via Tadino a Milano, fino al 9 giugno: Trappole tra sensualità e alienazione. Accostamenti surreali di soldati, squali, grasse bagnanti, enormi pugni svettanti, leoni... Tele di forte impatto e confusione tematica, rigorosamente senza titolo. «Quello che conta è la reazione di chi guarda.
Il titolo non è necessario» dice Oda. E mentre si ribella pacatamente contro i vincoli interpretativi posti dai titoli, alle sue spalle, viene affissa la più grande tela in mostra. «È stata trasportata dalla Germania in camion, quindi stelaiata, arrotolata per passare dalle scale, intelaiata di nuovo e ora la stanno appendendo» dice Vita Serena che cura l’allestimento. «Preferisco non vedere» commenta la pittrice. Altre tele, più piccole, sono già appese. Come quella dove c’è un bambino che vola. «Sta realizzando un sogno comune a tutti. Volare. Ma non si può dire che cosa gli capiterà alla fine del volo» spiega Oda. E forse sta solo saltando sul letto.
La ribellione della Jaune alle barriere è anche nel rifiuto di utilizzare modelli. «Quando qualcuno posa davanti a te si crea un rapporto artefatto che limita la mia libertà. Preferisco utilizzare soggetti inconsapevoli che fotografo per strada, foto prese dalle pagine politiche dei giornali, o scaricate da Internet. L'importante è che funzionino una volta decontestualizzati, come pezzi di un collage». I suoi soggetti, quelli più espressionisti, sembrano esprimere sofferenza, angoscia. Ma quando glielo dico, se la ride come se fossi caduto in trappola, perché, spiega, una volta inseriti nei quadri diventano materia neutra, smettono di soffrire. Sono come bombe esposte in un museo bellico. La Jaune ama i musei bellici, la contrapposizione tra l’ambiente rarefatto del museo e la durezza sanguinaria delle armi.
Un’altra ribellione delicata è quella che porta la Jaune da Sofia a Düsseldorf. «Ho passato un’infanzia molto bella in Bulgaria. I miei ricordi infantili sono legati al Mar Nero, dove torno spesso; alle rocce rosse che sembrano quelle del West; alle foreste del sud, fitte come giungle; al villaggio dei monti Balcani dove avevamo una casa, Gulam Isvor. Quando è finito il comunismo avevo solo dieci anni ma il desiderio di cambiamento lo respiravo da tempo. La gente poteva cantare, gridare, pregare: fare tutto quello che prima era proibito. A 16 anni sono entrata alla Bbdo, una agenzia di pubblicità internazionale, filiale di Sofia. Potevo lavorare come graphic designer, come aveva fatto mio padre. Ma sentivo che non era una scelta di libertà. Non correvo nessun rischio, non mi mettevo in gioco. E così ho sottoposto il mio lavoro alla Kunstakademie di Düsseldorf, dove mia sorella Joanna studiava».
Oda riconosce alla sorella, pure lei artista in Germania, il merito di averle indicato un percorso, ma dall’altro lato c’è in lei un desiderio di distinzione. «Non si somigliano i nostri lavori, non ci somigliamo fisicamente..». E anche la decisione di cambiare nome non è estranea. «Volevo avere un nome che fosse solo mio e così ho abbandonato Michaela Donowska per diventare Oda Jaune. Oda in antico tedesco vuol dire cosa preziosa. Jaune in francese vuol dire giallo, il colore della luce». Ma come l’ha trovato il nome nuovo? «L’ha trovato mio marito. Ho voluto che fosse lui a darmi un nome». Anche nel matrimonio di Oda da giovanissima (20 anni) col suo professore alla Kunstakademie, il pittore Jorg Immendorff, c’è delicatezza e forza. Ci voleva delicatezza per affrontare una relazione scomoda, con un artista importante e affermato, molto più vecchio di lei.

E coraggio nel decidere di sposarlo e farci una figlia, Ida, che in antico tedesco vuol dire «occhi», quando gli è stata diagnosticata una terribile malattia terminale che toglie progressivamente tutte le facoltà; per ultima quella più preziosa, la vista.

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