Onna, il paese che non c'è Cancellato in 20 secondi

Un borgo di trecento anime. Rimangono solo macerie e le bare allineate sul prato. E una ragazza allibita con il suo peluche in braccio che contempla l'inferno

Onna, il paese che non c'è 
Cancellato in 20 secondi

Onna (L’Aquila) - Una suora tutta nera. Solo il bagliore del collarino bianco, che spara sotto i riflettori delle televisioni. Il velo e la gonna ingolfate di vento, un momento prima che scoppi il temporale. Cinque bare, di legno chiaro, allineate sotto un salice. «Altre, almeno una ventina, sono su quel grande camion. Serviranno tutte», dice suor Celestina. «Suora della Presentazione, per servirli», precisa, stringendosi uno scialletto, nero anche questo, sul petto magro, da passero. Il fondale è grigio maceria. Più le case accasciate su se stesse che quelle ancora in piedi. Un paese venuto giù in venti secondi, un paese che non si capisce più neanche com’era fatto. Un paese fantasma, come si dice in questi casi.

Un va e vieni esagerato di divise di ogni colore, e camionette, e mezzi nuovi fiammanti della protezione civile, e carabinieri, finanzieri, forestali, vigili del fuoco; e insomma forse più di trecento persone, quante se ne contavano fino all’altra notte qui a Onna, una decina di chilometri dall’Aquila, «prima che il demonio si infilasse in via Alfieri - per dirla con suor Celestina, che sgrana spaventata gli occhietti, celesti come il nome che si è scelta -. Un demonio, le dico. E sotto i suoi colpi di coda le case venivano giù una a una».

La ragazza, col suo giubbino nero e i pantaloni della felpa rossa è il solo puntolino di colore che vedo al tramonto, sul fondale grigio maceria di via Alfieri. In braccio tiene il suo Winnie the Pooh color crema, grande come un bambinello, e non fa che carezzargli la testa. Cammina come un automa. Se la interroghi non risponde. Dice solo il suo nome, a cantilena. Facciamo fatica a capire... Forse non è neanche il suo nome vero. La chiameremo Giulia. Sorride guardando verso lo scialle di neve che ricopre il monte Sirente. Ma carezza la testa del suo pupazzo, questa ragazzetta che avrà però più di vent’anni, e gli infonde coraggio. Ma non c’è nessuno, qui in giro, che abbia tempo e voglia di far coraggio a lei. «Adesso è finita - dice Giulia al suo pupazzo -. Non devi aver paura. Vedrai che tutto passa e noi ce ne andiamo a casa».

Giulia però la casa non ce l’ha più, dice una sua vicina. Il padre, la madre, il fratello piccolo... dicono che son tutti morti. Morti in 38, l’ultimo bilancio della serata, ma forse sono 50, o anche di più, alla fine, in un paese di 300 anime. Un paese di vecchi, le facce cucinate dal sole come se fossimo sulle Ande. Vecchi come le loro case, pietre e mattoni scadenti, ma più pietre che mattoni, tenuti insieme da malte esauste che somigliano più al fango secco che al cemento.

Giulia non sa neanche dove andrà a dormire. Quelli della Protezione civile le hanno offerto un posto in tenda, una delle grandi tende bianche che stanno montando nel campo sportivo del paesello. «Vieni, dai, vieni con lei», le diceva poco fa una romanina con la sua bella divisa da protettrice civile che non aveva mai protetto nessuno, fino a oggi. Ma lei non vuole. Continua a far no con la testa, stringendosi al petto il suo pupazzo.

Le case crollate, le bare allineate sul verde del prato, i carabinieri in tenuta da battaglia che presidiano i vicoli e gli accessi al centro, le suore, gli infermieri, i cani cercapersone, quelli che scavano con le ruspe, le ambulanze. Giulia si guarda intorno senza vedere, senza più riconoscere il suo paese. Da un cumulo di macerie, lampi di vita spezzata: una chitarra scassata, una carrozzina, una pentola d’alluminio. «C’erano Andrea, e Giulia - dice Giulia a un tratto, trasognata, come se si fosse svegliata dalla sua trance - ma loro si sono salvati. Ho visto io il loro papà, Fabrizio, che li tirava giù con una scala. Ha preso una scala di legno, proprio così, e l’ha appoggiata al balcone, e loro si sono salvati. Gli altri no». Una bimba di pochi mesi, un bambino di due anni. Anche loro mancano all’appello.

C’è un elicottero che continua a girare sulla verticale del paese. Giulia lo guarda. Poi, puntandomi i suoi occhi addosso mi domanda: «C’è la guerra?». E ride con un’aria assente, disegnando degli “8” con l’indice della mano destra, in aria, come se dirigesse un’orchestra invisibile.
Si contano i morti, ma è un conto che va rifatto ogni ora. «Questo è un paese di anziani - dice Stefania Pezzopane, presidente della Provincia -. Se non arrivano i figli a dire chi è scomparso, magari nemmeno lo si sa».

I sopravvissuti hanno tutti la stessa faccia, gonfia di pianto e di sonno. Sui prati, decine di confezioni d’acqua minerale gettate a casaccio. I discorsi, le recriminazioni, le accuse son quelli di sempre. Perché uno, quando gli è crollato il mondo addosso vorrebbe almeno il mondo - quello dei fortunati, che non c’erano, e l’hanno sfangata - ai suoi piedi. E lo vorrebbe subito, in un fiato: le ruspe, i vigili del fuoco, l’elicottero, l’ambulanza, l’acqua da bere, il tè caldo e anche gli gnocchi. «Sono giorni che ci sono scosse, però la Protezione civile ci diceva che era tutto a posto - dice un uomo di una sessantina d’anni -. Però almeno ci potevano dire che cosa fare nel caso di un terremoto come questo».

Una si lamenta perché manca l’acqua. Altri, i resti di due famiglie che hanno trovato ricovero al di qua di una staccionata dove raspano irrequieti quattro cavalli, si lamentano perché manca «un referente». Proprio così, «un referente».
Giulia sente tutti questi discorsi, sente la nonna che racconta ai cronisti delle sue nipoti morte, ma è come se non sentisse. «Winnie non si è fatto niente», ripete a una crocerossina che la guarda distratta, dopo aver controllato e ricontrollato le orecchie e il groppone del suo peluche.

A Bazzano, a Paganica, Assergi, Camarda, insomma ovunque si vada è il deserto. Case lesionate, occhi spaventati, le bestie senza padroni, gli sfollati con la coperta sulle spalle, il tè bollente nei bicchierini di plastica e i bambini che la mettono sul ridere.

E se c’è una palla, e le facce di quelli della tele che si mettono in posa, e i grandi non scocciano con la storia dei compiti da fare: vai che è già festa. E poi, assicura Giulia guardandomi con i suoi occhi buoni, «Winnie non si è fatto niente. Guarda...».

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