Ora il Salone dice no all'Arabia Saudita (che ci fa la predica)

Il cda ci ripensa dopo la condanna a morte di un giovane oppositore. E l'ambasciatore: "Spiacevole e sorprendente, siete male informati"

Ora il Salone dice no all'Arabia Saudita (che ci fa la predica)

Il Salone del Libro ci ha ripensato: l'anno prossimo il Paese ospite della kermesse torinese non sarà l'Arabia Saudita. Non ci sarà proprio alcun Paese ospite: solo un «focus sulla letteratura araba». Lo ha deciso ieri il cda della Fondazione per il libro (che fra l'altro, nella stessa occasione, ha approvato anche la ri-nomina di Ernesto Ferrero a direttore editoriale). L'Arabia Saudita però, diciamo, si è risentita del ripensamento. E il motivo è che, secondo le voci circolate già sabato scorso, il passo indietro del Salone sarebbe dovuto alla pressione da parte delle autorità piemontesi (cioè la Regione e il Comune di Torino, soci della Fondazione) a ritirare l'invito a Riad per via dell'«importanza - ha detto il governatore Chiamparino - di trasmettere messaggi univoci e coerenti in tema di rispetto dei diritti universali della persona». Una questione a cui si poteva pensare già prima dell'invito (solo nei primi sei mesi del 2015, secondo Nessuno tocchi Caino in Arabia Saudita sono state messe a morte «almeno 102 persone», la libertà di espressione e di pensiero sono ancora lontane utopie, le donne non possono nemmeno guidare), ma che è tornata sul banco del cda del Salone in questi giorni per la condanna a morte di un giovane manifestante, Ali Mohammad al Nimr, un ventenne che, secondo la giustizia saudita, dovrà essere decapitato e crocifisso.

Così, l'ambasciatore saudita in Italia Rayed Krimly ha scritto una «lettera aperta agli amici italiani» in cui, pur non citando mai direttamente il Salone, invita il nostro paese a farsi gli affari suoi: dopo «otto decenni di relazioni bilaterali», per l'ambasciatore è «spiacevole e sorprendente che tali relazioni in forte sviluppo siano oggetto di attacco da parte di alcuni individui male informati». «Coloro che mostrano particolare interesse ai diritti umani - aggiunge - dovrebbero approfondire la conoscenza dei casi particolari»: nel caso del «cittadino al Nimr», si tratta di un ragazzo che a 17 anni è stato arrestato e «dichiarato colpevole di 14 reati», fra cui «molteplici aggressioni armate contro mezzi della polizia, contro personale e stazioni di polizia con armi e bombe molotov, creazione di cellule terroristiche armate...». Al Nimr, nipote di un religioso sciita (pure lui condannato a morte) è stato arrestato perché manifestava ai tempi della «primavera araba» per «uguali diritti e democrazia» (come racconta il New York Times ). Insomma Al Nimr è un giovane oppositore, come Raif Badawi, il blogger condannato a mille frustate (e a dieci anni di carcere) perché diffondeva le idee liberali.

Tutto questo, certo, si sapeva anche prima. Ma qualcuno si deve essere accorto della gaffe, a un certo punto. Per esempio il sindaco Fassino l'altro giorno ha fatto notare che la partecipazione di un Paese che condanna a morte e poi crocifigge un ragazzo «negherebbe in radice quelle ragioni di dialogo che erano alla base dell'invito». Che peraltro aveva destato subito perplessità quando l'addetto culturale saudita in Italia aveva dichiarato: «Per il momento abbiamo 21 libri tradotti in italiano ma contiamo di proporne altri e di far conoscere meglio l'islam agli italiani e a chi è interessato a capirne la cultura» ( il Giornale , 19/05/2015). Insomma pochi libri, ma tanta religione e cultura islamica. Per carità, ma che cosa c'entra con il Salone del Libro? Sembra che nemmeno il direttore Ferrero riesca a spiegarlo, visto che ieri ha detto perentorio: «Non ci è mai interessato portare a Torino culture di regimi». C'era più interesse a portare persone, forse, visto che sulla vicenda degli ingressi «gonfiati» (per esempio nel 2015 il presidente Picchioni ne aveva dichiarati 341mila, ma sono stati 276mila) nessuno si è scandalizzato, anzi, ieri Ferrero ha detto di «non capire tutto questo accanimento mediatico» e ha messo la questione da parte così: il make up sui dati di pubblico è pratica comune a tutte le manifestazioni di massa, come pure alle fascette dei libri. Confessione comune, mezzo gaudio.

Nessun gaudio, però, per Riad, che non ha apprezzato la «lezione» sui diritti umani (forse anche perché sente di non averne bisogno, dato che le Nazioni unite hanno nominato a capo del Consiglio dei diritti umani il suo ambasciatore Faisal bin Hassan Trad): nella lettera Krimly ricorda che «l'epoca dell'imperialismo europeo si è da tempo conclusa», e quindi «non confondete il dialogo, che implica necessariamente l'esistenza di differenze, con il monologo».

Una bella lezione, mancava solo che l'ambasciatore ci rinfacciasse: «Non sono d'accordo con quello che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo». Magari poi potrebbe provare a ricordarlo anche in patria...

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