Al Pac i discepoli della Abramovic

Treccia nera, pelle di luna, abito scuro: Marina Abramovic si è presentata così a Milano, la settimana scorsa, per proporre il suo metodo, celebrato al Pac nella mostra di arte più attesa, discussa e commentata dell'anno.
«Nella mia esperienza, maturata in quaranta anni di carriera, sono arrivata alla conclusione che il pubblico gioca un ruolo molto importante, direi cruciale, nella performance - ha detto -. Senza il pubblico, la performance non ha alcun senso perché, come sosteneva Duchamp, è il pubblico a completare l’opera d’arte. Nel caso della performance, direi che pubblico e performer non sono solo complementari, ma quasi inseparabili».
Ebbene, da qualche giorno si sono dovuti separare: da questa settimana la mostra al Pac è orfana della stessa Abramovic che ha lasciato il testimone di «guida» spirituale nel percorso delle installazioni a un gruppo di selezionati studenti dell'Accademia di Brera che ha seguito un corso di formazione ad hoc. Coadiuvati dalle due assistenti della grande artista montenegrina, sono ora gli alunni di Brera i depositari del metodo Abramovic: spetta a loro accogliere ogni giorno, in 4 gruppi di 21 persone ciascuno, i visitatori che vorranno partecipare al percorso artistico concepito dall’artista (boom di prenotazioni per la prima settimana). Come si sa, chi decide di partecipare alla performance entra in mostra senza pc, cellulare, gioielli: lascia nell'armadietto una parte di sé e indossa un camice bianco e delle cuffie, per isolarsi dal mondo. Il contratto prevede almeno un’ora e mezza di tempo, durante il quale si segue il metodo Abramovic, ora seduti ora sdraiati ora in piedi («le tre posizioni dell'essere umano»), immersi nelle sue installazioni di legno, con minerali, cristalli e magneti. Malesseri (all'assessore Stefano Boeri è capitato), disagi, senso d' inquietudine: la guru del mondo dell’arte non è più a Milano, e spetta dunque agli studenti di Brera raccogliere le testimonianze di questa lunga performance senza performer che durerà fino al 10 giugno.
Nel frattempo, ci sono altri modi per conoscere Marina Abramovic, Leone d'Oro alla Biennale del '97, «nonna» della performing art (definizione sua) e di fatto icona planetaria dell'arte contemporanea: nella galleria milanese di Lia Rumma, è in corso la personale «With eyes closed I see happiness», dove spiccano 14 calchi di testa d'artista trafitti da quarzi. La gallerista napoletana, amica personale dell’artista, ci racconta di una donna che nella nostra città ha amato fare shopping, andare fuori a cena e circondarsi di giovani e capaci collaboratori. L’artista che ha incantato il MoMa di New York con la sua estenuante performance di tre mesi nella hall, seduta in silenzio a guardare il pubblico, è in realtà una donna che ama la vita. «Ma è prima di tutto una instancabile lavoratrice, precisissima» racconta Lia Rumma. Stabilito il suo quartier-generale nella caffetteria della galleria, Marina ha da lì coordinato fin dai primi di marzo il ciclone Abramovic che si è poi abbattuto su Milano nei giorni a venire.

Ora che è andata via, non smettiamo di parlare di lei. La casa editrice milanese Johan&Levi presenta il 16 aprile da Lia Rumma la bella biografia (autorizzata) scritta da James Westcott. Titolo del volume: «Quando Marina Abramovic morirà».

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