Parise, il provinciale dandy della letteratura italiana

Torna nelle librerie "Il prete bello", il romanzo che segnò il successo dello scrittore veneto

Parise, il provinciale dandy della letteratura italiana

Malinconico. Sfuggente. Snob. Cresciuto in provincia, trasmigrato in città, poi tornato a annidarsi sulla riva di un fiume. Viaggiatore esotico da grandi alberghi, e eremita in una casupola; viveur, ma avido d'isolamento; intimo dell'alta società e frequentatore di esponenti della sinistra extraparlamentare (come lo sperimentatore Nanni Balestrini); bollato da reazionario nei primi anni Settanta, in verbose polemiche tra le élite del pensiero, da Alberto Moravia, a Renato Guttuso, da Natalia Ginzburg a Giorgio Bocca; sciatore e fumatore, vitalistico e spesso gravemente infermo, Goffredo Parise rimane, a quasi quarant'anni dalla scomparsa, un esemplare enigmatico e contraddittorio d'intellettuale di razza. Precocissimo, innanzitutto. Neri Pozza gli pubblica il romanzo d'esordio, Il ragazzo morto e le comete, insuccesso commerciale ma non di critica.

Da almeno un decennio a questa parte l'armocromatica Adelphi ci ha proposto la ristampa delle sue opere più importanti; esce ora in edizione economica, Il prete bello (pagg. 272, euro 14), il romanzo che nel 1954, pubblicato da Garzanti, fa assaggiare per la prima volta il successo allo scrittore vicentino, da poco approdato a Milano per lavorare proprio alla Garzanti. Inquieto, cambierà più di quaranta alloggi nei successivi otto anni. Nel frattempo si impone anche come giornalista, dal Corriere d'Informazione al Resto del Carlino. È un uomo ombroso, uno che passa per non fare compromessi, ma è anche uno che non rinuncia ai privilegi, anzi. Alberto Arbasino se lo ricorda come uno dei pochi scrittori che «prendevano lo stipendio», nel senso che guadagnavano abbastanza per distinguersi dai cenacoli degli artisti rattoppati del Dopoguerra, o dagli intellettuali organici scodinzolanti attorno a Togliatti. Lui no, investe in terreni, compra case e automobili spider. Fa la vita da dandy a Parigi. Flâneur, va a vivere a Roma. Qui, alla Camilluccia, suo vicino di casa è Carlo Emilio Gadda, che gli offre consulenza ingegneristica sulle tubature e lo vede andare alle poste a spedire, anonimamente, pacchetti fallici destinati alle damazze dei salotti letterari. Gadda che viene portato sulla spider dove, terrorizzato, non osa dirgli di andare più piano nel timore che vada ancora più veloce.

Parise, nella definizione di Arbasino, è un uomo «in stivali da caccia e camicie di seta». Affascinato dal grottesco (che esprime anche nel cinema, scrivendo sceneggiature con e per Fellini, Pinelli, Salce, Guerra, Bolognini, un soggetto per Marco Ferreri), offre ne Il padrone il ritratto di un editore imprenditore vessatorio e crudele (Livio Garzanti, che s'inalbera), forse incarnazione dell'«Italia padronale e ufficiale del Conte Piovene» (ancora Arbasino).

La metamorfosi di Parise si compie nei decenni e passa attraverso il «realismo magico» de Il ragazzo morto e le comete, il lavoro onirico, chagalliano, che Andrea Zanzotto, suo amico ed esegeta, definirà «una storia febbricitante, fatta di sogni, di tempi contraddittorii, di realtà che mentre uno le guarda gli si trasformano sotto gli occhi. I ragazzi sono i poveri ragazzi abbandonati, accanitamente alla ricerca di una forma di sopravvivenza, in questo o in altri mondi, tra guerra e primo dopoguerra, in condizioni disumane...». Un suo coetaneo, classe 1929, e amico di adolescenza, Raul Rossetti, (Raoul è anche il nome di un personaggio del Ragazzo morto), autore di Schiena di vetro (Einaudi), memoir abbacinante sulla provincia, la fuga e l'emigrazione, quando parlava di Parise al sottoscritto, lo descriveva come una figura angustiata (fu cresciuto da un padre adottivo, era quello che ai tempi si definiva un figlio di N.N.), concentrato in una dimensione individuale esclusiva, ma allo stesso tempo capace di interagire con scaltrezza.

Più tardi Parise si avvicinerà, passando per La grande vacanza, e con Il prete bello, a una dimensione più oggettiva, storicamente più inquadrata, consequenziale. Perciò troverà il successo di vendite. Le umili origini gli restano addosso; non bastandogli forse Osvaldo, il padre adottivo, cerca conforto nel maestro Giovanni Comisso, suo ispiratore di una narrativa più sentimentale, quella, per dire di Sillabario n. 1 e di Sillabario n. 2 (usciti rispettivamente per Einaudi e Mondadori nel 1972 e nel 1982); ma per la compagnia, la conversazione aristocratica e la caccia in botte alle anatre sceglierà il conte Giustino di Valmarana, ricco senatore democristiano.

Non è lungo il passaggio da enfant prodige a enfant gâté, da Milano a Roma, nei circoli bohémien della Pop art del trio Angeli-Festa-Schifano, allo stesso tempo maledetti e mondani, animali da droga e da salotto. Lui come dipendenza ha il fumo, e tra gli artisti trova un'amante durevole, la pittrice Giosetta Fioroni, che gli sopravvive ancora oggi. Gli starà vicina fino in fondo, condividendolo con un'amante successiva. Lei nel frattempo si è vendicata con un qualche giovanotto e lui controvendicato con il romanzo feroce e trasudante sesso malato L'odore del sangue (scritto nel 1979, uscito solo nel 1997 per Rizzoli). Libro che lui vuole non sia mai pubblicato, salvo non distruggerlo, chissà.

Un giornalista di lungo corso, che non vuol essere nominato, e che incontrò e studiò Parise da vicino, mi tratteggia il ricordo di un uomo inafferrabile, mai svincolato dall'infanzia infelice in provincia, che cerca di depurare in una vita internazionale e dorata. «Mi mandò un messaggio di saluto da Parigi, su carta intestata del Ritz, l'albergo assurdamente lussuoso, che si faceva pagare dal Corriere della Sera. Era un ossimoro vivente. In un suo amato rifugio foderato di legno sulla riva del Piave, dormiva in una cella monacale nel sottotetto, inebriandosi dei colori del cielo».

Il Corriere lo manda in giro per il mondo e lui lo ripaga con reportage limpidi, spietati e strabilianti dalla Cina, dal Biafra, dal Giappone, da New York, frequentando Truman Capote o intervistando il filosofo Adorno, allora insostenibile per i «media padronali». Ci rimette la salute. Assalito da febbri, con un cuore e i reni al collasso, si ritira forzatamente a Ponte di Piave. Vanno a trovarlo gli amici, va Moravia. Gli stanno vicino le sue donne, Giosetta Fioroni e Omaira Rorato. Cede a meno di 57 anni, nel 1986.

Le ceneri sono seppellite in giardino sotto una para-scultura di Brancusi. Poco prima, con modestia (finta?) aveva scritto: «Forse anche il mio momento è venuto che la mia opera di risibile scrittore venga infilata in uno scaffale, in quel millimetrico ossario che le compete».

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