Per il Pd è un crollo ma non per Franceschini

I democratici prendono sette punti in meno rispetto alle politiche. Il segretario detta la linea: la parola d’ordine è "tenuta". Di Pietro raddoppia e sfida il Pd

Per il Pd è un crollo 
ma non per Franceschini

Roma - La parola d’ordine è «tenuta». Tiene il Pd, e tiene il suo segretario Dario Franceschini. Che per prudenza attenderà probabilmente la giornata di oggi per rendere pubblico il suo commento ufficiale ai risultati di queste elezioni europee.
Ma ieri notte, dalla sede di Largo del Nazareno, i suoi lasciavano trapelare che il segretario stava seguendo con una certa «soddisfazione» l’andamento dei dati. Certo, rispetto al 33% di un anno fa il calo c’è eccome, di circa 6 punti. Però, si fa notare, stavolta all’appello mancano i voti dei radicali di Marco Pannella, assestati nelle proiezioni su un più che dignitoso 2,6%. Soprattutto, però, a rendere una «tenuta» l’oscillante 27% attribuito intorno alla mezzanotte e mezza al Pd (26,3 all’una) è quello che accade nel campo avversario. Già, perché il Pdl si ferma ben al di sotto della soglia psicologica del 40%, lo sfondamento temuto non c’è stato, e ora - è la speranza di Franceschini e dei suoi - le tensioni si scaricheranno tutte nel centrodestra.

Tra i dirigenti del Pd c’è chi giura, sul filo della battuta, che la prima telefonata di Franceschini sia stata quella al direttore di Repubblica: «Grazie Ezio». La campagna martellante sulla «questione morale», a base di minorenni, mogli infelici e ballerine in volo di Stato, cavalcata dal principale partito di opposizione, pare aver portato i suoi frutti. E se i dati verranno confermati, toccherà a Franceschini raccoglierli: con un Pd attorno al 27%, la corsa verso il congresso (e il cambio di leadership) sembra rallentare, e a scorrere le reazioni a caldo dei dirigenti Pd si intuisce un serrare le fila attorno al segretario.
C’è Piero Fassino che, dopo aver sottolineato il «mancato sfondamento» del Pdl, rivendica il primato del Pd, che diventa «il secondo o terzo» tra i partiti del socialismo europeo, tutti in rotta. Argomento subito impugnato dagli ex Margherita, che avvertono che ora un Pse in crisi non può dettare condizioni al Pd, quando si tratterà di decidere sul gruppo europeo. «Adesso è il Pse che deve chiedere di entrare nel Pd», scherza Paolo Gentiloni. E Franco Marini ribadisce: «A Strasburgo dobbiamo fare due gruppi autonomi, noi e il Pse, anche se alleati».

Il problema dei rapporti con i socialisti si porrà, come si porrà quello del rapporto con un Antonio Di Pietro trionfante che già si proclama rappresentante di quella sinistra esclusa dal Parlamento europeo e dà ultimatum: «Il Pd sovrà scegliere tra l’Udc e noi, che siamo pronti a fondare una nuova coalizione». Ma, almeno all’interno del suo partito, da stanotte Franceschini si sente più forte. La giornata era iniziata con molta più incertezza, e con la paura di un astensionismo che pareva colpire anche nelle roccheforti della sinistra, dall’Emilia alla Toscana. Per questo il segretario aveva convocato per le 20, via sms, tutti i big del partito per una riunione riservata.

Per ringraziarli («Non mi sono mai sentito solo in queste settimane») e per raccomandarsi: niente «rompete le righe» appena chiudono le urne, la «compattezza» con cui il gruppo dirigente ha gestito la campagna elettorale deve durare «almeno fino ai ballottaggi», nei quali saranno ancora in ballo realtà importanti per il centrosinistra. Il timore del segretario era quello di ritrovarsi, già sui giornali di martedì, una raffica di interviste e commenti che avrebbero riacceso le polveri della polemica interna. «Insomma, meglio evitare di aprire il dibattito congressuale prima ancora dei ballottaggi», notava Giorgio Tonini.

Sui risultati del partito, Franceschini ha lanciato ai suoi un monito: «Dobbiamo tutti saper sottolineare, in pubblico, che qualunque dato ci veda sopra la soglia cui ci davano i sondaggi fino a un paio di mesi fa, va considerato un buon successo per questo partito». Insomma, dal «22-24% in su» si deve - se non festeggiare - quantomeno dare al proprio popolo l’impressione di aver tenuto. Anche se il calo, rispetto a quel 33,2% delle politiche di un anno fa, era Walter Veltroni, sarà comunque massiccio. Proprio Veltroni, a stretto giro di posta, fa sapere di non gradire per nulla la versione franceschiniana di un Pd che «risale» grazie alla nuova gestione. E l’ex leader affida subito una precisazione alle agenzie: «Quando io lasciai la segreteria, i sondaggi ci davano al 26%, non al 22%». Come dire che da allora ad oggi non è cambiato praticamente nulla: le prime proiezioni confermano infatti quel 26% evocato da Veltroni.

Ma per Franceschini il messaggio da dare è quello di un Pd che «è partito da una situazione di grande difficoltà, giocando in difesa», e nonostante tutto esiste ancora.

E che ora, spiegano i suoi, deve «concentrare le proprie energie sulle regionali del 2010, e sulla tessitura di nuove alleanze» per tornare alternativi al centrodestra, anziché disperderle in una battaglia congressuale che rischia di dilaniarlo. D’Alema, assicurano, sarebbe della stessa opinione. E il congresso si allontana.

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