La pellicola su Giorgio VI? Dignitosa ma buonista

Bari La II edizione del Bari International Film & Tv Festival s’è aperta col Discorso del re di Tom Hooper, produzione anglo-australiana distribuita dai fratelli Weinstein, che la stanno trascinando dai Golden Globes agli Oscar. Non che Il discorso del re meriti tutta questa attenzione: è una dignitosa confezione (in Italia uscirà venerdì prossimo), passata per i Festival di Telluride e Toronto, che non entra nella storia del cinema. Ma s’inserisce nella storia del Regno Unito e del suo Impero declinante, approfittando della balbuzie del duca di Kent (Colin Firth) per avvolgere di politicamente corretto una pagina oscura - fra le tante - della lotta per il potere nella famiglia reale britannica.
Il Bif passa per il «Festival di Vendola». Se fosse lui e non Felice Laudadio, il direttore, a decidere il programma, cominciare dal Discorso del re dimostrerebbe che, fra gli smemorati reduci del Pci, lui ricorda la saggezza della «svolta di Salerno» di Togliatti. E pazienza se il re del film è britannico, non sabaudo. Le intese fra sovrani e comunisti degli anni Quaranta sono state magari effimere, ma anche decisive, in Italia come in Romania, quanto quella degli anni Settanta in Cambogia.
Ma l’angolazione scelta da Hooper - sulla base della sceneggiatura agiografica di David Seidler - non è shakesperiana, cioè dinastica e politica, come nell’insolito Riccardo III di Richard Loncrane. È sanitaria e ideologica: pretesto per evocare la dinastia è infatti la minorazione di una figura marginale, il duca di Kent, che divenne re come Giorgio VI all’abdicazione del fratello, Edoardo VIII (Guy Pearce), senza avere una personalità tale che lo sottraesse al destino che poi si vide: essere strumento della corrente filo-americana della classe dominante. Oggi Giorgio VI è noto soprattutto come padre della regina Elisabetta.
Ma nel film c’è un’altra Elisabetta (Helena Bonham-Carter), nota come regina-madre, presentata come devota sposa, ansiosa di guarire il marito. E infatti la vicenda punta non sulla nobiltà del sangue, ma sulla lotta per guarire. Complice del duca, fin dagli anni Venti, un logopedista australiano (Geoffrey Rush), dai metodi nuovi. Morale. Diventa presto lui il personaggio principale del film.
Il pubblico italiano, che non ha visto quasi mai sul grande schermo i suoi sovrani, osserverà la boiserie degli arredamenti e le velette della signore (Eve Best è Wallis Simpson, cara a Galeazzo Ciano nei giorni del consolato di Shanghai). Non capirà quasi nulla dei rapporti sottotraccia fra britannici e australiani: i secondi non si sono ancora liberati dal complesso d’inferiorità verso i primi, perché discendono dai deportati del Regno Unito.

La figura dell’australiano risanatore del futuro sovrano serve a rassicurarli che un giorno a Londra avranno dimenticato il loro essere di bisnipoti di brave donne. Il che probabilmente è già accaduto. È fra Perth e Adelaide che non riescono ancora a digerirlo.

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