La Pelosi conquista la Camera Usa ma viene subito sconfitta in casa

Vuole come suo vice l’eroe di guerra Murtha. I democratici eleggono un altro collega

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Eletta all’unanimità, sconfitta a larga maggioranza: questo il debutto ufficiale di Nancy Pelosi nel suo nuovo ruolo di presidente della Camera Usa. Un debutto che molti hanno giudicato sorprendente, perché di solito in situazioni come queste i politici cercano di prolungare la «luna di miele» con i colleghi e gli elettori e dunque evitano posizioni controverse. La Pelosi ha fatto esattamente il contrario: sicura del plebiscito personale, invece di aiutare Steny Hoyer, il suo vice come capo del gruppo parlamentare democratico alla Camera, a diventare il suo successore, gli si è messa contro, proponendo un altro candidato, John Murtha. Ne è seguita una battaglia interna combattuta secondo strane linee strategiche.
La Pelosi, fiammeggiante «liberale» di San Francisco, ha cercato di ostacolare Hoyer, che appartiene come lei all’ala sinistra e di portare avanti invece Murtha, che è un moderato e anzi, per taluni aspetti, un conservatore. Per di più un parlamentare molto discusso per qualche coinvolgimento del passato, vero o presunto, in scandali o almeno investigazioni che riguardavano principalmente esponenti del Partito repubblicano. Ricordi che hanno fornito all’establishment, soprattutto quello «liberale», ottime armi per opporsi a lui e a colei che lo aveva sponsorizzato.
Il voto del gruppo parlamentare è venuto a scrutinio segreto due ore dopo l’elezione di Nancy all’unanimità. Hanno partecipato tutti i 235 nuovi deputati democratici e Murtha ne ha raccolti solo 86, contro 149 andati a Hoyer, che aveva avuto l’appoggio editoriale, fra l’altro, dei più influenti quotidiani vicini al Partito democratico, a cominciare dalla Washington Post.
Lo strano allineamento ha delle cause personali (vecchie amicizie e antiche rivalità) ma soprattutto un motivo politico-strategico. Murtha è un eroe di guerra pluridecorato che ha inizialmente appoggiato l’attacco di Bush all’Irak, ma che da meno di un anno ne è diventato un critico fra i più severi ed è anzi fra coloro che chiedono che il Pentagono fissi subito una data per il ritiro delle truppe dall’Irak.
L’atteggiamento della Pelosi rivela dunque una sua scelta: battere il ferro finché è caldo, tenere la Casa Bianca sotto pressione costante, nella convinzione che il successo democratico nelle elezioni del 7 novembre sia dovuto in gran parte al «rigetto» della guerra da parte della maggioranza degli americani, che travalica le tradizionali distinzioni e contrapposizioni tra «liberali» e «conservatori». Della stessa opinione è il senatore Carl Lavin, che ha subito illustrato un suo piano analogo, altrettanto prontamente respinto dalla Casa Bianca, anche mediante una «testimonianza» in Congresso del comandante in capo di tutte le forze americane nel Medio Oriente, generale John Abizaid, che ha avuto vivaci scambi proprio con Lavin e che ha definito «disastrosa» l’ipotesi di un ritiro precipitoso del contingente Usa dalla Mesopotamia e ha espresso, primo in un coro di voci negative delle ultime settimane, una certa fiducia nella possibilità che la situazione politico-militare a Bagdad e dintorni possa essere raddrizzata.


Per questo occorre una continuata presenza americana sul terreno. Abizaid è contrario anche al consiglio opposto che viene dal senatore repubblicano John McCain (oggi il più quotato come candidato alla presidenza nel 2008) che vorrebbe invece l’invio in Irak di massicci rinforzi Usa.

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