Da pensionato, il commissario Bordelli conduce la sua indagine più importante

La riapertura di un caso del 1947 dà inizio a un intenso romanzo civile

Da pensionato, il commissario Bordelli conduce la sua indagine più importante
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Il miglior Marco Vichi di sempre. Lo scrittore da più di un milione e mezzo di lettori, è sempre riuscito a coniugare la letteratura più alta con i generi più diversi. Certo, è famoso per aver creato la figura del commissario Bordelli, l'unico personaggio seriale in giallo che alle indagini investigative predilige quelle esistenziali, ma ha pubblicato anche racconti e saggi ed è anche esperto di John Fante e di Dino Campana, del quale ha pubblicato degli inediti.

Adesso torna in libreria con Nulla si distrugge (Guanda, pagg. 552, euro 22) romanzo che vede protagonista sempre Bordelli il quale, malgrado non sia più commissario alla Questura di Firenze, indaga su un omicidio del 1947: un ragazzo di venticinque anni, figlio di un industriale con una forte simpatia per il fascismo, ucciso a coltellate. «Vendetta rossa» o omicidio passionale? Vichi ci riporta alle radici dell'anima nera del mondo: non solo per i tempi di guerra e del dopoguerra, ma raccontandoci la fine del regime fascista intuendo che «la volontà fascista poteva essere declinata in molti altri modi». Il fascismo dei consumi portato dagli americani (che proprio «liberando» l'Italia hanno compreso come fosse più conveniente colonizzare le coscienze piuttosto che i territori); il fascismo degli stragisti anni '70 (dove tutti sono colpevoli perché, tra depistaggi e misteri, alla fine nessuno lo è); quello dei tempi moderni in cui le democrazie sono dittature invisibili che ci incatenano attraverso il progresso.

Non è un libro politico, ma è un romanzo civile che si nasconde dietro una trama gialla, e che ci permette di comprendere chi certe guerre le ha combattute sul campo: dallo stesso Bordelli, ex Reggimento San Marco nella «Guerra di Liberazione» che diventa uno «sbirro sognatore» negli anni '60 e che l'anima nera del mondo l'ha nel sangue; i ricordi del padre partigiano; l'essere testimone diretto di una società che voleva cambiare il mondo ma ha finito soltanto per peggiorare sé stessa. Bordelli racconta di Firenze - dimostrando tutta l'abilità di Vichi nel cogliere l'essenza della città -, dell'Impruneta, del Chianti, dove vive ritirato in una vecchia casa coloniale: soltanto lì ritrova i luoghi dell'anima e una memoria storica che da commissario aveva cercato di cancellare.

Perché «nulla si distrugge»: «le nostre vite - scrive Vichi - sono fatte di carne e ricordi». Quindi le atrocità della guerra e quelle, forse ancora più atroci, dei primissimi attentati terroristici attraverso un filo nero che non sono esclusivamente una appartenenza politica, ma qualcosa in più: il Male che alberga in ognuno di noi, la nostra sfida quotidiana per non farlo vincere, la tentazione di sfuggire a un oblio che quotidianamente ci viene imposto: dalla tecnologia, dalla modernità, da un mondo dove tutto progredisce ma nessuno progredisce veramente.

Vichi si dimostra uno scrittore che in punta di penna - con una scrittura poetica ma al contempo lucidissima e ferma, lontana da ogni tentazione di rima baciata- ci regala un altro libro dove la ribellione è invocata non dall'autore, ma suggerita. Non barricate di piazza ma barricate di carta, di inchiostro, di letture, di cultura, di storia, di poesia, di amore.

Non è un caso che Vichi citi espressamente un'autrice troppo dimenticata: Alba de Cespedes che già nel dopoguerra con suoi libri intuì come i germi di una frattura generazionale sarebbero esplosi solo nel '68. Ed è da questa frattura che parte Vichi per farci capire che «tutti noi che abbiamo dimenticato il passato siamo condannati a riviverlo».

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