"Pentimento", "vergogna" e "rabbia", il comandante Tolstòj a Sebastopoli diventò genio delle lettere

I racconti sull'esperienza al fronte segnarono la vita dello scrittore. Dall'entusiasmo al pacifismo

«Uscendo dall'altra parte del ponte, quasi tutti i soldati si toglievano il cappello e si facevano il segno della croce. Ma dietro a questo sentimento ce n'era un altro, pesante, tormentoso e più profondo: era un sentimento apparentemente simile al pentimento, alla vergogna e alla rabbia. Quasi ogni soldato, dopo aver guardato Sebastopoli abbandonata dalla riva della Sévernaja, con un'inesprimibile amarezza nel cuore sospirava e mandava minacce ai nemici». Così Tolstòj chiude il ciclo dei Racconti di Sebastopoli, narrando fatti dell'agosto 1855. Nell'ottobre del '54, insieme ad altri ufficiali dell'artiglieria russa, il ventiseienne aspirante scrittore aveva programmato di realizzare un periodico militare che desse conto delle operazioni durante l'assedio della città. Il ministero della guerra gli negò il permesso.

E questa è l'unica buona notizia uscita dalla Guerra di Crimea, in cui si scontrarono l'Impero russo e l'alleanza composta da Impero ottomano, Francia, Gran Bretagna e Regno di Sardegna. Perché quelle pagine scritte non a tambur battente, ma in leggera differita e uscite sulla rivista pietroburghese Sovremennik, segnano la nascita di uno fra i più grandi letterati della storia. Tuttavia le guerre non si festeggiano mai, nemmeno quando si vincono, ebbe a dire lui stesso mille e più volte quando era diventato, da giovane entusiasta, un anziano e saggio patriarca. «Ricredetevi e comprendete, che i vostri nemici non sono gli inglesi, i francesi, i tedeschi, i russi (...) ma che i vostri nemici, gli unici vostri nemici, siete voi stessi, che sostenete con il vostro patriottismo i governi che vi opprimono e causano le vostre disgrazie», scrisse quasi mezzo secolo dopo nel saggio Il patriottismo e il governo. In pochi lo seguirono, ne abbiamo avuto mille e più dimostrazioni, compresa quella odierna, in atto da quelle parti.

Eppure da comandante di una batteria del quarto bastione, il punto più esposto della difesa, lui inizialmente era molto su di giri, inebriato dall'estetica crepuscolare, gotica del conflitto. Annota ad esempio nel diario: «Sul lungomare il sole già tramontava dietro le batterie inglesi, qua e la si vedeva alzarsi il fumo degli spari e si sentivano degli schioppi (...) Che bello!» (7 dicembre 1854). E ancora: «Il continuo fascino del pericolo di osservare i soldati, con i quali vivo, i marinai e l'andamento della guerra sono così piacevoli, che non ho voglia di andarmene da qui, tanto più che ho un grande desiderio di assistere all'assalto se questo avverrà» (13 aprile 1855).

Proprio in quei mesi, dall'altra parte, in mezzo ai soldati britannici, c'era un altro uomo passato alla storia. L'irlandese William Howard Russell (1820-1907) fu infatti il primo giornalista non militare a svolgere il compito di inviato di guerra.

Scriveva per il Times e quando illustrò la disfatta militare dei cosiddetti «600», cioè la brigata leggera dell'esercito inglese che venne decimata a Balaclava dai russi, come ringraziamento ottenne aspre critiche e persino l'accusa di tradimento della patria.

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