Caro, (mon)signor Coletti,
ho l’impressione che abbia scelto l’occasione sbagliata per prendermi in giro. Non ho una docenza in diritto penale, però so cosa sia il rito abbreviato e perfino il patteggiamento. La ringrazio lo stesso per avermi rinfrescato la memoria sul punto. E approfitto della circostanza per renderle il favore. Le ricordo cioè che una sentenza è un atto pubblico per definizione e usarla a fini giornalistici non è scorretto. Può talvolta essere inopportuno, ma non è questo il caso.
La condanna a sei mesi inflitta al direttore di Avvenire, e commutata in pena pecuniaria, è stata originata da un fatto che lei conosce benissimo da tempo e che in parte conoscevo anch’io. Perché non l’ho pubblicato fino a venerdì della scorsa settimana? Semplice. Non ne avevo la documentazione di cui lei, invece, come tutti i vescovi italiani, disponeva avendola ricevuta - suvvia, lo ammetta - insieme con la copia del certificato generale del casellario giudiziale. Non appena sono riuscito a impossessarmi delle necessarie pezze d’appoggio, ho divulgato la notizia senza timore di smentite.
Per quale motivo un quotidiano dovrebbe nascondere le sue informazioni? Molti dicono che il privato dei cittadini non dovrebbe essere oggetto di trattazione giornalistica, e sono d’accordo. Ma una condanna non è una questione privata anche se legata a un reato concernente la sfera personale, o addirittura intima. Tanto è vero che viene emessa da un giudice.
Se non fosse così caro monsignor Coletti, mi spiega perché quando fui condannato per aver diffuso attraverso Libero le fotografie relative a vittime di pedofili (i volti erano irriconoscibili perché coperti da pecette) la notizia fu riportata dai giornali? Da notare che avevo patteggiato. Allora, se patteggio io finisco sulla stampa; se patteggia Boffo bisogna stare zitti, altrimenti il vescovo di Como si irrita e dalla sua cattedra impartisce lezioni sbagliate di deontologia professionale. Mi scusi, ma che metodo è questo?
Le chiedo senza spirito polemico: come mai lei, pur essendo edotto dell’incidente capitato al direttore di Avvenire, anziché verificarne le circostanze, ha preso carta e penna per bacchettare me? Qui c’è una condanna e lei, piuttosto che dare un’occhiata alla «fedina» del condannato, se la prende con chi l’ha resa nota, e tace del resto.
Perché tace? Se ragionassi come sua eminenza dovrei concludere che il suo comportamento è ispirato al desiderio di compiacere a qualcuno. Un superiore? L’accusa che rivolge a me dovrebbe riservarla alla sua riverita persona; da un prelato mi aspetterei un impegno per accertare la verità e non per nasconderla. O il Vangelo che ho letto è una patacca?
Il Giornale non ha lapidato nessuno; e se lei cerca chi si sia eretto a giudice dei peccati altrui non lo trova nella mia redazione, ma in quella di Avvenire e in quella di la Repubblica e di altri quotidiani e periodici, per esempio Famiglia Cristiana, dove don Sciortino se c’è da menare le mani su Berlusconi (che non ha neppure patteggiato e non ha commesso reati di molestie) lo fa con entusiasmo.
Vittorio Feltri
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