Di notte, a Harlem, soltanto la luna bagna con una luce tiepida quella striscia di terra rossa. Per conquistare il campetto occorre scavalcare una recinzione metallica. È infilato tra i grattacieli, ma lo protegge una fila di orgogliose alberature. Lei, Althea Gibson, va avanti per ore: per fortuna tutt’intorno hanno messo i doppi vetri. Comunque non la vedrebbero. Fluttua nella penombra newyorkese come un’anima leggera. Si cuce al buio indovinandone i contorni. Più tardi confesserà: “Non vedevo le linee del campo, allora imparai a percepirle”.
Althea Gibson: le origini di una leggenda
Althea Neale Gibson non è nata qui. La sua vicenda inizia a srotolarsi in un afoso giorno d’agosto nel 1927, dentro a una gigantesca fattoria della Carolina del Sud. I suoi lavorano in una piantagione di cotone per tutto il tempo. Portano in giro mani ruvide e cuori appannati dalla fatica. Althea quel destino lì non ce l’ha inciso dentro, ma serve sempre un assist provvidenziale per correggere il flusso della storia. Il suo glielo incarta la Grande Depressione: quando le entrate iniziano a tossicchiare, mamma e papà fanno le valigie per eludere la sfiga e si gettano nella chiassosa New York, inesauribile fabbrica di opportunità.
La piccola Gibson intanto cresce in fretta. È alta, dinoccolata e sfoggia un portamento imperioso, quasi regale. Papà, nel frattempo, ha trovato lavoro come custode di un garage. Le cose sembrano svoltare. C’è solo quel non trascurabile dettaglio che quando sale sull’autobus deve cedere il posto ai bianchi. Che poi è anche il motivo per cui è costretta ad allenarsi clandestinamente a notte fonda, lontana da sguardi acuminati, al riparo da pregiudizi corrosivi. E poi lei di giorno non potrebbe entrare, perché l’accesso è interdetto alle persone di colore.
Dai primi passi a Wimbledon
Aveva iniziato con il paddle, di cui era divenuta campionessa del quartiere a soli 12 anni. Braccio svelto, sguardo guizzante, movenze sicure. Il passaggio al tennis però non viene giù liscio come una passeggiata nel parco. Serve un’altra spintina a un fato pigro e ostinato. A grattare via le incrostazioni che rallentano la carriera di Althea interviene, salvifico, uno sparuto gruppetto di filantropi che vive non lontano da casa sua, a Harlem. La dotano di una fulgida racchetta Wilson e di tutto l’equipaggiamento necessario. Aprono anche un campo riservato, dove lei e gli altri ragazzi neri possano allenarsi senza i commenti di scherno inferti dalla borghesia bianca.
L’idea di una tennista di colore sul circuito internazionale resta però niente di più di una seducente astrazione. Nel dopoguerra il talento della Gibson vive compresso su un lungolinea infinito: potrebbe giocarsela agilmente con le grandi, ma è costretta a premere il naso contro la rete metallica anche se si tratta di un torneo di vicinato. Terzo assist allora, per provocare la fenditura giusta. Quella che fa filtrare un getto di speranza consistente. Prende posizione Alice Marble, fenomenale campionessa bianca. Lo fa senza indugi. Non sceglie una delicata voleé. Opta per uno smash che scuote le stanze del potere. “Se il tennis è effettivamente un gioco per signore e gentiluomini – scrive sulle colonne dell’American Lawn Tennis Magazine – è tempo di comportarsi come tali, non da ipocriti”. Colpiti e affondati nel giro di venti parole.
D’un tratto, le porte serrate dei maggiori tornei internazionali diventano scorrevoli. Gibson ci si infila dentro senza tentennamenti, diventando la prima giocatrice di colore a scendere in campo per il National Tennis Championship. Il suo è un tennis elegante e ferale al contempo, una sequenza ritmata di fluida potenza. E poi una che ha mandato mentalmente a memoria le linee del campo sa come lambirle in modo che facciano le fusa. È una racchettata in faccia alla cloaca della segregazione. Un rovescio inafferrabile per chi pensa che il colore della pelle valga discriminazioni e patemi.
Althea divora in fretta le contendenti, piazzando le sue leve affusolate tra le primissime posizioni del ranking. Nel 1956 diventa la prima atleta afroamericana a conquistare il torneo di un grande slam, vincendo l’Open di Francia. Un anno più tardi – ed è probabilmente il suo climax tennistico – vince a Wimbledon e stringe la mano alla Regina Elisabetta II. “Un bel salto – commenterà – rispetto ai tempi in cui dovevo sedermi nella sezione per i neri sull’autobus”.
Una vittoria a metà, un esempio per sempre
In patria l’accolgono come un’eroina ed è un sogno impensabile, certo. Solo che stride parecchio, se ripercorre con la mente tutti i chiavistelli che blindavano i suoi legittimi desideri. Non è un’incrinatura banale. Althea si rende conto in fretta che quel muro di pregiudizi l’ha scalfito, ma per sbriciolarlo serve di più. Il suo compenso è rappresentazione tattile di una iattura fabbricata su misura: se sei nera, e per di più sei donna, ti spetta una manciata di spiccioli. Così l’illusione di fare del tennis la propria esistenza si sgretola in fretta. Althea ne sarà anche la regina, ma non è sufficiente: “Regnavo – racconterà – sopra un conto in banca vuoto. Avere una corona era stupendo, ma non potevo mangiarla”.
Così la Wilson in legno alleata di numerose contese viene rinfoderata a soli 31 anni, dopo un rapido tour al fianco degli Harlem Globetrotters. I suoi sogni sfumano gradualmente, parzialmente picconati dall’assenza di liquidità, ma l’esempio resta inscalfibile.
Con la sua ammirevole tenacia, mista a una robusta dose di tempismo, la Gibson è diventata esempio e speranza zampillante per le generazioni successive, aprendo una fessura profonda dentro alla melma razzista e maschilista. Forse non è bastato, ma da qualche parte bisognava pure iniziare. Certe volte basta una manciata di passi dentro una notte buia.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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