Petraeus, il generale intellettuale che sta salvando gli Usa in Irak

Le sua strategia ottiene successo Bush lo definisce «il numero uno». E ora tutti attendono il suo rapporto sullo stato della guerra che presenterà il 15 settembre

da Washington

Sarà pubblico, non «confidenziale», l’atteso rapporto sullo «stato della guerra» in Irak. Più esattamente, il rapporto sarà reso noto attraverso la Casa Bianca, ma i due autori, l’ambasciatore americano a Bagdad, Ryan Crocker, e il comandante militare, generale David Petraeus, testimonieranno pubblicamente e in persona e, ha fatto sapere il portavoce di Bush dalla Casa Bianca delle vacanze in Texas, «in piena sincerità: parleranno della situazione sul terreno, diranno cosa vedono e cosa raccomandano di fare». È l’ennesimo annuncio in proposito, la conferma che il presidente si attende molto e molto investe sull’appuntamento del 15 settembre e, in particolare, sulle parole di Petraeus, l’uomo del giorno, la spada dell’America a Bagdad, lo scudo di George Bush a Washington.
In Irak cerca i terroristi di Al Qaida, contrasta gli estremisti sciiti, combatte gli ultras sunniti nell’Anbar, si sforza di contenere le stragi inter-etniche. In patria difende la Casa Bianca dai raid del Congresso. E guadagna tempo: le polemiche sull’Irak sono state contenute dall’invito ad «aspettare settembre» e il «rapporto Petraeus» sullo stato della guerra, come se le sorti della presidenza dipendessero da lui, ciò che non è escluso: basta ascoltare come ne parla Bush e tenere il conto di quanto ne parla. Lo definisce «il numero uno», «intelligente e capace se mi dà consigli sinceri», «mi fido del suo giudizio». Quest’anno l’ha citato centottanta volte solo nei discorsi ufficiali, fino a cinquanta volte in un mese.
La spada e lo scudo. E anche, aggiunge chi ha memoria storica, «il Grant di Bush». Ulysses Grant salvò Abraham Lincoln durante la Guerra Civile americana. Se non fosse riuscito a vincere qualche battaglia importante contro i Confederati (e a intrappolare il «Napoleone del Sud», Robert Lee) prima delle elezioni del novembre 1864, Lincoln non sarebbe stato rieletto. Ma Grant espugnò Atlanta e risolse tutto, se non per il Sud almeno per la Casa Bianca. Bush non ha questo problema perché non è ricandidabile, ma ci tiene moltissimo al «giudizio della Storia». Qualche successo in Irak, per esempio, potrebbe diminuire le sue tentazioni di cercare, prima della scadenza del mandato, una rivincita in Iran.
Bush ama identificarsi con Lincoln. Petraeus, in ogni caso, non assomiglia a Grant. Non ha niente del «soldataccio», è uomo uscito da un’élite. Laureato a Princeton, snello ed elegante, uomo di mondo che quando frequentò l'Accademia militare di Westpoint, conobbe, corteggiò e sposò la figlia del rettore. È un «generale intellettuale», che scrive libri, fra cui un manuale, definito fondamentale, su come affrontare la guerriglia, in parte ispirato dalle esperienze dei francesi in Indocina e in Algeria. È un «generale politico», che sa conciliare l’estrema lealtà che Bush dà e richiede ai suoi più stretti collaboratori con un savoir faire nei confronti del Congresso. È sua la formula secondo cui il potere in America abita metà alla Casa Bianca e l’altra metà sotto la cupola del Campidoglio. È un generale «realista», che non parla mai di «vittoria totale» e sa evitare ogni espressione che includa la pensabilità di una sconfitta.
Dal suo rapporto ci si aspetta un giudizio «misto» sull’andamento del conflitto: qualche miglioramento della situazione militare, particolarmente nella capitale e nella provincia sunnita più ribelle, Anbar, descritta a volte come covo di Al Qaida, poche o nessuna novità incoraggiante sul piano politico: il governo e le istituzioni di Bagdad funzionano male come prima. È dunque probabile che dare le cattive notizie tocchi soprattutto a Crocker e a Petreus siano riservate quelle più incoraggianti, soprattutto una, cui il generale ha accennato parlando con dei giornalisti a Bagdad: che il traguardo è una riduzione della presenza militare americana potrebbero arrivare pressappoco entro un anno.
Un compito che tutto sommato si addice a David Petraeus, che parla, e per quanto se ne sa agisce, con un senso della misura che schiva gli assoluti. Nel primo messaggio alle truppe appena arrivato a Bagdad, non promise di «spezzare le reni» a questo o a quel nemico: definì la situazione «difficile ma non senza speranza». Ha cercato in tutto questo tempo, non molto, di darsi degli obiettivi importanti ma non irrealizzabili, lasciando il trionfalismo agli strateghi da tavolino in borghese, ai crociati e agli ideologi. Se Bush punta tanto su di lui è anche per questo, perché gli fa da contrappeso. È esperto dell’area, conosce gli errori passati e i passati successi. Fu fra i primi a riconoscere gli errori dell’America in Irak, a cominciare da quello di sciogliere le forze armate irachene a causa dei loro legami col deposto Saddam Hussein, lasciando così allo sbando decine e decine di migliaia di uomini armati fino ai denti e senza lavoro. Petraeus sa di dover navigare fra molti scogli, quelli iracheni di una leadership politica evanescente e di una guerra settaria, etnica e religiosa, fin troppo concreta.

Fa con sé promesse caute, non slogan. E conosce anche i rischi cui va incontro. Chi è salutato come «salvatore» può essere trasformato rapidamente in capro espiatorio. Lincoln fece strage di generali, prima di incontrare Grant.

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