Più ribelli di prima. Oggi i Metallica sono più "contro" che negli anni '80

Il nuovo disco "72 Seasons" li riporta al suono che li ha resi celebri in tutto il mondo. E, nell'epoca di rap e "urban" si confermano fuori dagli schemi

Più ribelli di prima. Oggi i Metallica sono più "contro" che negli anni '80

Poi eccoli qui, sono loro, non si sbaglia. Ci vuole poco più di un minuto per sentirsi di nuovo a casa dei Metallica, una delle band generazionali per eccellenza, i maestri del thrash metal che a inizio anni Ottanta ha estremizzato l'hard rock di Black Sabbath, Judas Priest, Saxon o Motörhead per portarlo oltre ogni limite di velocità e di watt. Dopo un minuto e 21 secondi di tafferugli metal e ritmi cadenzati, il riff della chitarra di Kirk Hammett «apre» la canzone 72 Seasons e «riapre» un'epoca che si è chiusa soltanto per finta. Ormai si parla quasi solo di Generazione Z ma, attenzione, ora è il momento della Generazione X e dei millennial cresciuti con James Hetfield, Kirk Hammett, Lars Ulrich e (ora) Robert Trujillo, insomma i Metallica, uno dei pochi gruppi al mondo che sia davvero stato capace di rovesciare un destino già scritto e pure il cliché di un genere musicale.

È uscito il loro dodicesimo album, si intitola 72 Seasons come la canzone iniziale e non potrà avere l'impatto emotivo del loro Master of Puppets (1986) né le vendite kolossal del cosiddetto Black Album del 1991 ma è forse ancora più rivoluzionario perché esce in un momento nel quale le chitarre si suonano sempre meno e di distorsori o wah wah parlano solo i Måneskin e pochi altri al di sotto dei quaranta anni. Perciò il giro di basso elettrico ed elettrificante di Sleepwalk My Life Away oppure i monumentali e cupissimi undici minuti di Inamorata oggi forse sono più controtendenza delle canzoni di Kill 'Em all, il primo disco dei Metallica uscito nel 1983 e diventato subito un manuale d'istruzioni per chi fosse cresciuto con i Led Zeppelin o i Deep Purple e volesse fare casino con chitarra e batteria e urlare invece di cantare. Dopo pochi mesi le bibbie di quel neonato genere musicale, come l'epocale Kerrang!, lo battezzarono «thrash metal» e identificarono i quattro gruppi portabandiera: oltre ai Metallica c'erano Anthrax, Megadeth e Slayer.

A metà anni Ottanta il thrash metal era «altro» da tutto il resto. In un panorama musicale diviso per fazioni, era drammaticamente diverso dai new romantic stile Duran Duran, Spandau Ballet o Visage, dai post punk di Siouxsie and the Banshees, Wire o Talking Heads e persino dall'hardcore di Henry Rollins o Misfits. Era l'esagerazione, il suono portato all'estremo. «Rumore» per chiunque amasse i cantautori italiani o la West Coast o anche il rock più morbido tipo Foreigner o Journey. In sostanza, i Metallica erano nati commercialmente perdenti e destinati più che altro a un pubblico marginale. E invece.

Dieci anni esatti dopo essersi formati grazie a un annuncio di Lars Ulrich sulla rivista The Recycler (il solito «Cerco musicisti per band metal»), i Metallica erano la band rock più fresca e aggressiva del mondo. Grazie al cosiddetto Black Album del 1991 riuscirono persino nella missione impossibile di portare il thrash metal (molto più patinato di prima) nelle playlist radiofoniche di tutto il mondo e persino in rotazione su Mtv, cosa che allora equivaleva a una laurea (oltre che a un notevole upgrade del conto in banca). Per una generazione ascoltare Enter Sandman nelle radio pop è stato un epocale grido di vittoria e la conferma che il rock era arrivato davvero per intero al grandissimo pubblico, senza (troppe) contaminazioni, senza (tanti) compromessi.

I Metallica hanno poi venduto oltre cento milioni di dischi, hanno perso per strada il gigantesco Cliff Burton per un incidente stradale in Svezia e si sono persi (specialmente James Hetfield) in parecchie cliniche di disintossicazione. Ma oggi hanno uno dei pubblici più fedeli del mondo perché, tanto per capirci, nei giorni scorsi Metallica: 72 Seasons Global Premiere, ossia il primo «listening party del mondo al cinema» è arrivato molto in alto al box office, un privilegio che hanno pochi altri gruppi di così lunga vita. E in effetti, 72 Seasons è un importante segnale di vita per una band di sessantenni che nell'ultimo decennio aveva pubblicato un disco di culto (diciamo così) con Lou Reed e un disco non proprio riuscito (diciamo così) nel 2016, quel Hardwired... to Self-Destruct che suonava stanco già dal titolo. Però, dopo la crisi di mezza età, i Metallica sono tornati alla loro ragione sociale, hanno realizzato che non saranno mai più la rivelazione del momento ma che hanno una gigantesca quantità di pubblico che garantirà sold out a vita in ogni parte del mondo per davvero, ossia dagli Usa alla Malesia, da Hong Kong all'Italia al Sud Africa. E non c'è bisogno che in concerto i «Four horsemen» suonino classici tritatutto come Seek&Destroy oppure Creeping Death. Conta che esistano.

Metaforicamente, sono ancora nelle cantine di Los Angeles dove hanno iniziato senza neanche lontanamente immaginarsi che avrebbero vinto Grammy Awards, venduto cento milioni di copie, fatto innumerevoli tour mondiali e guadagnato uno sproposito. Oggi i Metallica hanno il loro dodicesimo disco e si ritrovano, a sessant'anni, nella stessa posizione di quando ne avevano venti. Ossia controcorrente. Se non è metal questo.

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