Quell'altro Virdis, il primo, era Pietro Paolo, sempre chiamato con due nomi, gran bel centravanti, sardo con la classica rima di testardo, per dire ragazzo poco incline al ruffianesimo e decisamente propenso alla schiena dritta. Voltando pagina, una vita dopo, lo ritrovo qui, dentro questo localino niente male in via Piero della Francesca, Milano di vita senza sfociare nella movida sbracata, 16 coperti non uno di più perché altrimenti qualità e servizio ne risentono, l'insegna più chiara di un manifesto elettorale: «Il gusto di Virdis», sottotitolato «il gusto di bere, di mangiare, di acquistare». In questi 40 metri quadrati c'è tutto il nuovo mondo, suo e di sua moglie Claudia, sposata a Torino, ai tempi della Juve, quando lei aveva appena 18 anni, ma ancora oggi compagna del cuore, prima d'essere socia in affari. Me lo rivela lui stesso, sorridendo di sé: «Lavorare con la moglie, solo noi due, tutti i giorni: il nostro matrimonio ne vale quattro di quelli normali, più o meno...».
Virdis non fa da specchietto per le allodole come tanti suoi colleghi, che ci mettono il nome e compaiono saltuariamente tra i tavoli tipo madonne candelore, senza metterci mai mano. Questo secondo Virdis sta qui dalla mattina alla sera, domenica esclusa, e a occhio e croce fa più esercizio fisico del primo, avanti e indietro, a zona e a uomo, attacco e difesa, con la stessa emozione e la stessa passione. Sì, il bello è proprio questo: dentro il suo amatissimo locale, non trovo un'aria da cimitero d'elefanti, ma l'atmosfera lieve di chi ci crede. Niente nostalgia, allora. Men che meno rimpianti e sangue amaro. Il secondo Virdis, a 58 anni, è a pieno titolo un uomo in bilico tra buoni sapori e soave armonia. La classe non è acqua, direbbe il teorico: qui la conferma, perché la classe è tutta vino. E buoni prodotti tipici della terra italiana, con particolare riguardo alla Sardegna, obviously . Tanto per metterlo a suo agio, gli faccio subito una domanda cosmica: dopo aver provato le due cose, è più facile fare un gol o vendere una caciotta? Ride. Il baffo è sempre quello, però decisamente innevato. Sul capo, nessuna traccia dell'antico cespuglio carbone, molti peli in meno e pure quelli infarinati. Ma la freschezza, quella, è ancora e sempre del giovanotto a schiena dritta: «Sono sincero: fare gol non è per niente facile, ma vendere caciotte e olive di questi tempi è decisamente più difficile. Però attenzione: io non mi lamento, sono fortunato...». Si dice convintamente fortunato perché ha il suo zoccolo duro di clientela affezionata, ha gente che viene una volta e poi torna per sempre. «Certo, i tifosi dei miei tempi vengono anche per me, come no. Quando chiamano per prenotare chiedono subito scusi, ma Virdis compare prima o poi? E io sempre a dire la stessa cosa: come compare, lei sta parlando con Virdis, Virdis è qui sempre per servirla... Vengono, mangiano, fanno la foto, ricordano quella volta che. Però arrivano anche i loro figli. Il mio miglior pierre è Youtube : il papà racconta del passato, il figlio va subito a controllare dal vivo cosa combinavo».
Nel primo tempo, ricorda, era un ragazzino sassarese (di Sindia) che stupiva nel Cagliari. E che nella sua terra voleva fortemente restare. «Un giorno, dopo aver fallito gli spareggi per tornare in A, era il '77, andai dal presidente Delogu per dirglielo chiaro: la delusione è troppo grossa, voglio restare per riportare il Cagliari in A. È una questione di orgoglio. Lui mi guardò un po' così, poi mi disse: ragazzo, non c'è più una lira, sei già della Juve. Per me, allora, la Juve non era un sogno: era un dramma. Mica per la società, ci mancherebbe: solo per dire com'ero fatto io. Guarda caso, ci andai controvoglia, pieno di patemi, e feci una fatica boia ad ambientarmi. Loro avevano appena vinto scudetto e coppa Uefa, trasecolavano: ma chi è questo qui che a vent'anni non vuole venire alla Juve e che oltretutto ti manda pure a quel paese, quando gli garba... Difatti tornai a Cagliari in prestito, poi di nuovo a Torino, un po' meglio, scudetto vinto, finché non arrivano Platini e Boniek con grande spesa, così che il club decide di recuperare qualcosa vendendo proprio me, all'Udinese, la bella Udinese dei Causio, dei Mauro, poi degli Zico». Ma poi, come andò poi, se la ritrovo qui a palleggiare taglieri e buon vino? «Andò benissimo al Milan, tant'è vero che qui ho messo radici. Ma terminai di giocare a Lecce, 34enne. Avrei potuto scroccare ancora qualche contratto in giro, ma non mi sentivo più all'altezza. Il mio onore e il mio orgoglio me lo impedivano. Ho chiuso, ho chiuso quando mi è sembrato il momento giusto. Nessuno sa mai quale sia: devi sentirlo dentro, sulla pelle». Fine degli osanna, basta tifoserie in delirio, basta popolarità e basta successo. Non un passaggio da niente, che dice, Pietro Paolo? «Non scherzo: nessun trauma, per me. Bisogna essere felici di ciò che si ha avuto. E poi dedicarsi subito, anima e cuore, a nuove passioni. Per me resta un'emozione magnifica fare gol, ma è ugualmente bello quando un cliente mi dice grazie, proprio bene, qui da lei mi sono sentito in famiglia. È tutto. Certo capisco anche chi non riesce a scendere di bicicletta o dalla macchina: ognuno ha il suo sentire. Per me, posso solo dire che al tempo dello stop mi sono concesso un paio d'anni per fare quello che avevo sempre sognato: viaggiare. E mangiare, e bere. Poi ho provato a rientrare, facendo l'allenatore a Catania, a Viterbo, a Nocera. Ma anche lì: ad un certo punto, ho capito che non ero adatto. Colpa mia, intendiamoci bene: non voglio passare per il solito genio incompreso. Volendo restare nel mio ambiente bisognava mantenere i legami, i rapporti. Non dico fare il lecchino, c'è una bella via di mezzo. Ma non puoi pretendere che il mondo ti cerchi, se tu sparisci. Tocca a te starci dentro. E io, in questo, sono una frana. Anche solo alzare il telefono, per me, è fatica». E allora sotto con la seconda vocazione, dal 2003. La moglie in cucina, i ragazzi a farsi la loro strada. «Matteo ormai ha 27 anni e sta facendo la specializzazione in chirurgia addominale. C'è da sudare, al giorno d'oggi non è facile essere ragazzi. Molto peggio che ai nostri tempi. Poi c'è la piccola, 10 anni: l'abbiamo cercata e attesa per tanto tempo, è arrivata quando ha deciso lei, quando non ci speravamo più. Lo sa come l'abbiamo chiamata?». Come l'avete chiamata: Samantha, Jessica? «Benedetta. Tutto in un nome».
Virdis due è così, tale e quale il Virdis uno, sardo in rima con testardo, ma con un cuore vero. Ascolta il jazz e il rock, sogna un giorno di riuscire a tornare al cinema, legge libri che segnano, come Lettera a un bambino mai nato della Fallaci. Come allora, è un semplice. Ma un grande semplice. «Non mi racconti come un esperto di vini. Li amo, li studio, li conosco. Ma il vero sommelier è un'altra cosa. Certo, devo dire che al giorno d'oggi sono tutti sommelier. Io li vedo, ai tavoli, quando gli amici mandano a quel paese l'espertone del gruppo, sa quello che trova tutti i retrogusti del mondo, dal cuoio al tabacco all'antiruggine. Ecco, io penso che i sapori autentici non abbiano bisogno di richiami, sono sublimi così per come sono in natura...». Tra tante figurine dei tempi andati che improvvisamente ritroviamo sgualcite, seppiate, stracariche di amaro e di rimpianto, quella di Virdis appare ancora oggi come appena tolta dalla bustina. Fresca, nitida. Il ragazzo sardo che non voleva lasciare l'isola ha compreso molte cose della vita. Certo le due o tre più importanti, in serenità, con la giusta ironia: «Mai guardarsi indietro malinconici. Ogni vita è piena e bella, per chi la sa vivere. Io sarei fuori dal mondo perché sono fuori dal calcio? Ad essere sinceri, mi pare che adesso, tra tv e giornali, si parli solo di cucina: in fondo sono più che mai al centro della scena...».
Ecco quel che bisogna dire di lui: è vivo, ancora essenzialmente vivo. Tutto, fuorché un ex. Uno di quegli uomini cui non bisognerebbe mai chiedere dov'eri finito. Non finiscono da nessuna parte: stanno sempre cominciando.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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