Si erano conosciuti nel 1972, a Londra, poco dopo la sua fuga dall'Unione Sovietica. A Seamus Heaney piacque subito, gli pareva «una specie di samurai della poesia... l'eroico ragazzaccio che aveva sfidato i sovietici». Erano molto diversi; di Iosif Brodskij era nota la scaltra sagacia, il cinismo da intellettuale corsaro, «sempre in pericolo, sempre pericoloso». Negli anni, si dedicarono alcune poesie: Brodskij riandava alle «grida dei gabbiani a Dublino»; in Audenesque, scritta «in memory of Joseph Brodsky», Heaney ricorda i maestri di entrambi, Auden e Yeats. La poesia più bella per Brodskij, tuttavia, l'ha scritta Derek Walcott, con un distico superbo: «Sono un'aquila che ti riconduce verso la Russia,/ stringo negli artigli la ghianda del tuo cuore» (in Egloghe italiane). Insieme, i tre amici, Walcott, Heaney e Brodskij, firmarono un commosso Homage to Robert Frost. Nobilitati dal Nobel per la letteratura - Brodskij, con feroce precocità, nel 1987, Walcott nel '92, Heaney nel '95 - quei tre dimostrano che la poesia è anche questione di amicizia (l'invidia affatica i modesti) e naturalmente di lignaggio del linguaggio.
Nel 1988 Brodskij aveva fatto visita a Heaney, in Irlanda: «la foce del Liffey, forse, ricordava a Iosef le banchine di Pietroburgo». Di Brodskij, Heaney tradurrà alcune Poesie di Natale che in Italia possiamo leggere nella traduzione di Anna Raffetto, per Adelphi. Alla sua morte, preferì leggere A School of Poetry Closes, la sua traduzione di un poema di Tadhg Dall Ó hUiginn, bardo irlandese vissuto nel XV secolo: «Questa notte le scuole sono chiuse/ i letti resteranno deserti/ e chi di noi li ha occupati/ piange per la separazione».
Heaney intendeva il tradurre come un gesto di complicità, un patto, una continuità, il perpetuarsi del carisma poetico. Alcune traduzioni di Heaney sono tanto appropriate - nel senso di proprie, autorevoli per autorialità - da essere pubblicate in italiano: Beowulf (Fazi, 2002), il libro sesto dell'Eneide (Il Ponte del Sale, 2018), il suo Sofocle (Il Convivio, 2022). «Era nato per tradurre», scrive Marco Sonzogni, custode dell'eredità poetica di Heaney - per Mondadori ha curato il «Meridiano» delle Poesie - in The Translations of Seamus Heaney, tomo immane - quasi settecento pagine, sterline 35 - con cui la Faber, la mitica casa inglese diretta da T.S. Eliot, onora i dieci anni dalla morte del grande poeta irlandese. Tradurre come adempiere un lascito, perpetuare un dialogo con i lari, coltivare una genealogia lirica. Così, Heaney traduce Sofocle e Rilke, Virgilio e i bardi irlandesi, Giovanni della Croce, Orazio - amato anche dall'amico Brodskij - e Pukin, Baudelaire e Ana Blandiana. Un rapporto privilegiato è tessuto con l'Italia: Heaney traduce (o meglio, trapianta nella sua personale ricerca poetica) Giovanni Pascoli, Mario Luzi, Dante («In the middle of the journey of our life/ I found myself astray in a dark wood/ where the straight road had been lost sight of»). Tradurre, così, è consacrazione; poesia come fonte battesimale e passaggio della pietra focaia. Finché un poeta è tradotto da un altro poeta, il mondo continua a danzare. Del libro si parla con stupore nel mondo anglofono; Marco Sonzogni insegna alla University of Wellington, in Nuova Zelanda. Lo abbiamo intervistato.
Un tomo che raccoglie quasi 700 pagine fra traduzioni e commento, entro un arco traduttivo che va da Orazio a Kavafis. Mi viene da dire: dimmi cosa traduci e ti dirò che poeta sei...
«Io credo che qualsiasi scrittore che viva seriamente la propria vocazione alla scrittura e voglia migliorarsi debba presto o tardi confrontarsi con la traduzione - o perché traduce, o perché è tradotto o perché viene a conoscere entrambe le esperienze. Seamus Heaney non si è accostato alla traduzione seguendo motivazioni teoriche ma l'ha vissuta e praticata - inevitabilmente, mi viene da dire, visto il suo profilo linguistico, culturale e sociale di nordirlandese cattolico - come un'altra e altrettanto importante dimensione della scrittura, arrivo a dire della vita. Le traduzioni di Heaney vanno lette come opere originali e il volume che ho curato cerca di dimostrarlo, con umiltà ma con fermezza».
Seamus Heaney e il tradurre. Come inizia questa opera nell'opera, con quali intenti, con quali autori?
«Heaney inizia a tradurre a scuola - versioni dal latino di Livio e di Virgilio, e qualche testo canonico dal gaelico irlandese - e continua all'università - dove si apre alla poesia francese (e, più in generale, alla poesia europea) disponibile in traduzione nelle collane Penguin. All'università legge anche Dante, che inizialmente però abbandona. Del resto gaelico, latino e francese sono le lingue che studia e che rimangono quindi vive nel tempo proprio perché studiate. Non a caso traduce ancora da queste tre lingue negli ultimi mesi di vita. L'anglosassone, studiato in università, è l'altra grande potenza linguistica e culturale che lo forma».
Dagli antichi poeti d'Irlanda a Pukin: esiste un filo rosso tra i poeti tradotti da Heaney?
«In tanti hanno cercato di vederlo, questo filo rosso, alcuni addirittura hanno imposto il loro. Heaney ha sempre tradotto nel segno di una affinità elettiva con la poetica dell'autore tradotto per sua scelta o per invito. Infatti ha detto di no, tante volte, quando non sentiva di avere una way in, una via di accesso, come mi ha confidato in più di una occasione».
Faccio un gioco di insiemi: Santa Brigida, Giovanni della Croce. Mi viene da chiederle qualcosa sul senso del sacro in Heaney.
«Le lingue - l'inglese e il latino - delle scritture e dei riti sacri millenari del cattolicesimo (per altro emersi dal paganesimo che ha avuto, e ancora ha, una forte presenza nell'identità e nelle manifestazioni artistiche delle culture celtiche) lo hanno sempre affascinato e ispirato, anche quando nel tempo la pratica della fede è andata scemando per tante ragioni. Un late poem come Miracle (Human Chain, 2010) - versi che Heaney ha definito post-traumatic - lo testimonia. Ma ci sono tanti altri testi, tra cui anche l'unica traduzione, una delle prime, rimasta inedita fino alla pubblicazione del volume di Faber: Prayer, un sonetto spirituale di una religiosa francese che ha per tema il timor mortis - un timore che Heaney fa svanire con l'ormai famoso Noli timere inviato per messaggio alla moglie pochi istanti prima che la sua aorta cedesse a pochi metri dalla sala operatoria...».
Dante, Pascoli, Luzi. Il legame tra Heaney e l'Italia?
«La prima volta che Heaney legge Dante, come ho detto, lo abbandona quasi subito. Per riscoprirlo quando iniziano gli scioperi della fame dei paramilitari repubblicani incarcerati nelle prigioni britanniche negli anni più bui dei Troubles. La Firenze di Dante come la sua Belfast - scrive in un foglietto conservato ora alla National Library di Dublino - la storia lontana di Ugolino - che paga con i figli il suo tradimento politico - diventa particolarmente vicina e porta a Heaney un esempio linguistico, letterario e anche etico che non lo abbandonerà più. Ma la sua Commedia - una manciata di canti all'inizio e alla fine dell'Inferno e l'ultimo canto del Paradiso - è da leggere come testo originale per apprezzarne davvero la bellezza, la rilevanza e l'efficacia. Lo stesso vale per Pascoli e Luzi: poeti che entrano nell'inglese di Heaney su invito di altri ma che attecchiscono nel suo immaginario in virtù di consonanze umane e letterarie da un certo punto di vista tanto più profonde e fertili in quanto giunte, per così dire, a sorpresa. Più vicine al suo sentire sono invece la decenza quotidiana di Eugenio Montale e la testimonianza di Primo Levi che trovano nella scrittura e più in generale nell'arte una valvola di sfogo per alleggerire il male di vivere che serpeggia nella nostra era».
Segnalo anche una sintonia con alcuni poeti rumeni: come mai?
«Heaney sentiva una specie di affinità di coscienza con l'Europa dell'Est - penso alla Polonia di Miosz, Herbert e Szymborska e alla Russia di Pukin (tradotto su invito) e soprattutto di Mandel'tam (lettura fondamentale) e di Brodskij (tradotto per amicizia) oltre alla Romania di Sorescu e Blandiana -, oltre che con altri Paesi nel mondo la cui storia, segnata da sofferenza e violenza, scaturisce nell'inuguaglianza, nell'ingiustizia.
Credo che la matrice minoritaria, per così dire, sottesa alla poetica di autori dell'Est europeo che non si allineano se non addirittura che contrastano apertamente le autorità politiche e le strutture sociali del loro Paese d'origine abbia creato le condizioni per una fratellanza culturale e letteraria e in alcuni casi anche umana. Penso a Miosz e Brodskij, figure di grande presenza e influenza nella vita e nella scrittura di Heaney».
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