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L'Europa approva la riforma del Patto. L'Italia non vota e pensa di cambiarla

Al Parlamento Ue si astengono i deputati di Fdi, Lega e Fi. Anche il Pd si defila, mentre M5s dice no. Rientro del deficit meno duro con il piano a 7 anni ma restano le incognite sui tagli

L'Europa approva la riforma del Patto. L'Italia non vota e pensa di cambiarla
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Ieri il Parlamento europeo ha approvato la riforma del Patto di Stabilità con 359 voti favorevoli, 166 contrari e 61 astensioni. Tutti i deputati italiani (tranne 4) o si sono astenuti o hanno votato contro. Si sono astenute Fratelli d’Italia, Lega e Forza Italia. La maggioranza di governo, pur avendo attivamente lavorato al compromesso in sede comunitaria, ha preferito non dare il proprio via libera anche per i risvolti potenzialmente penalizzanti che il nuovo Patto potrebbe riservare alla nostra politica economica.

Non a caso molti esponenti di maggioranza - da Calandrini (Fdi) a Martusciello (Fi) - hanno commentato l’esito accennando a future modifiche da parte del nuovo Parlamento Ue. E proprio le Europee alle porte hanno convinto le tre «gambe» del governo Meloni a non spaccarsi visto che il Carroccio aveva da tempo sbandierato la propria contrarietà.
D’altronde, le opposizioni (che pure hanno provato a sfruttare la vicenda come un atto di sfiducia al ministro Giorgetti) non possono certo impartire lezioni di etica. Il Pd, che fa parte del Pse e sostiene von der Leyen, si è astenuto. M5s ha votato contro seguendo le invettive di Conte sul ritorno dell’austerità. Stessa dicotomia tra Iv e Azione. Anche in questo caso nessuno ha voluto prendersi la responsabilità di avallare un testo potenzialmente problematico.

Occorre, quindi, spiegare che cosa si nasconda dietro questi giochi politici che hanno il manifesto obiettivo di non perdere consensi in vista di elezioni con il metodo proporzionale e nelle quali ogni partito corre per sé. Rispetto al vecchio Patto di Stabilità scompare l’obiettivo di medio termine, ossia la traiettoria verso il pareggio di bilancio a colpi di tagli al deficit strutturale e, soprattutto, scompare il taglio (mai attuato) del 5% del rapporto debito/Pil per i Paesi fortemente in rosso come l’Italia. Restano i parametri «totem» del 3% del deficit/Pil e del 60% del debito/Pil.

Quello che è uscito dalla porta ricompare, però, dalla finestra sotto forma di Piano fiscale strutturale di medio termine con il quale i Paesi si impegnano a convergere verso quegli obiettivi con piani di rientro di 4 anni, estendibili a 7 anni a fronte di riforme che migliorano il potenziale di crescita e la sostenibilità dei conti pubblici. In pratica, il primo triennio di applicazione beneficerà nel 2025 e nel 2026 di una certa tolleranza nei confronti del Pnrr (che è debito ma anche deficit visto il cofinanziamento delle singole nazioni) per consentirne il completamento.

La Commissione europea comunicherà successivamente agli Stati una «traiettoria di riferimento» per porre il debito in un percorso discendente e sostenibile e calcolata con metodologia data. L’annuncio è atteso il 19 giugno, a elezioni già terminate, ma quel che è certo è che il debito/Pil dovrà scendere dell’1% all’anno per i Paesi come l’Italia con il parametro sopra il 90% (il nostro Paese è al 137,3% ma destinato a salire causa Superbonus 110%). Per i pochi Paesi con debito fra il 60 e il 90% del Pil la correzione prevista è dello 0,5 per cento annuo.
La questione maggiormente «spinosa» è rappresentata dal braccio correttivo, ossia il percorso studiato per i Paesi con deficit sopra il 3% del Pil. Sempre a causa del Superbonus l’Italia si presenta all’appuntamento della più che certa procedura per disavanzo eccessivo, con uno sbilancio al 7,4% del Pil. Questo vuol dire che al termine del piano di rientro il nostro Paese dovrà costituire un «cuscinetto» di salvaguardia portando il deficit/Pil all’1,5% in modo da gestire in autonomia (e non affidandosi a Bruxelles) eventuali spese in deficit impreviste. Nel frattempo, dovrà essere garantita una riduzione del deficit strutturale dello 0,5% annuo per i Paesi con piani a quattro anni (0,2-0,3% a sette anni). Insomma, la fase iniziale di applicazione del nuovo Patto non dovrebbe essere una tragedia anche perché, oltre al Pnrr, si terrà conto (escludendola) della spesa per interessi nonché degli investimenti per la difesa.

Il compromesso ottenuto dal governo Meloni, come detto, è buono ma - a causa dell’intransigenza tedesca - non ha potuto evitare l’innesco

delle clausole di salvaguardia sul deficit che rischiano di peggiorare la congiuntura in fasi di recessione. Senza contare che tutte le valutazioni saranno rimesse alla Commissione, un organo politico ma anche molto tecnico.

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