Il periodo che intercorre tra le elezioni presidenziali americane a inizio novembre e il giuramento del nuovo commander in chief il 20 gennaio dell'anno successivo, è uno dei momenti più delicati per la politica Usa. Per evitare scossoni e sovrapposizioni pericolose, la tradizione vuole che, seppur sul viale del tramonto, il presidente uscente sia a pieno titolo responsabile per la politica interna ed estera anche, e soprattutto, quando l’avvicendamento previsto a Washington è tra due esponenti politici di partiti contrapposti e con visioni diverse per il futuro della nazione.
La regola che prevede "un presidente alla volta" sembra però non trovare posto nella transizione in corso tra Joe Biden e Donald Trump. Una circostanza ben visibile in queste settimane nella contrapposizione tra la residenza presidenziale del vecchio Joe a Washington e quella del tycoon a Mar-a-Lago. Lo sanno bene i residenti di Palm Beach, la città della Florida sede della Casa Bianca invernale del repubblicano, che chiedono lo stato di emergenza per il traffico generato dal viavai di leader politici ansiosi di stabilire i primi contatti con il 47esimo presidente degli Stati Uniti.
Non c’è crisi internazionale su cui la vittoria del miliardario non abbia già prodotto i primi effetti. "Vengono tutti al tavolo dei negoziati per via di Trump", ha affermato Michael Waltz, nominato consigliere per la Sicurezza nazionale dal neoeletto, subito dopo l’annuncio della tregua tra Israele e Hezbollah. Ufficialmente negoziato dall’amministrazione Biden, il cessate il fuoco in Libano è stato interpretato da alcuni commentatori come un "regalo" del premier israeliano Benjamin Netanyahu al tycoon. Una patata bollente in meno per The Donald che, entrato in carica, dovrà trovare una soluzione per la guerra a Gaza e in Ucraina. E c’è chi non esclude che un'intesa possa arrivare presto anche su questi due dossier.
Il senatore Lindsey Graham, stretto alleato di Trump e reduce da incontri con Netanyahu e con il principe ereditario saudita bin Salman, ha dichiarato che il presidente eletto vuole un accordo a Gaza entro gennaio. Da Kiev invece negli scorsi giorni Volodymyr Zelensky si è detto per la prima volta disponibile ad accettare la perdita di territori, seppur "temporanea", in cambio di un ombrello della Nato sul resto dell’Ucraina.
Proprio sul conflitto nell’Europa orientale è apparsa con grande evidenza la doppia politica estera che caratterizza l’attuale transizione negli States. Mentre il team di Trump infatti rimarcava l’intenzione del neoeletto di arrivare alla fine del conflitto, Biden ha annunciato il via libera all’impiego da parte di Kiev di armi Usa a lungo raggio contro il territorio russo. Non sono poi passate inosservate le notizie del colloquio telefonico tra il miliardario e Vladimir Putin, smentito dal Cremlino, e l’incontro tra Elon Musk, alleato di Trump, e l’ambasciatore iraniano alle Nazioni Unite.
Nonostante l’inconsueta transizione in corso, il New York Times sottolinea però che, salvo importanti eccezioni, la politica internazionale del repubblicano potrebbe non distanziarsi così tanto da quella del suo predecessore. A partire dalla Cina, come dimostrato dalla nomina del falco anti-Pechino Marco Rubio alla segreteria di Stato che lascia intravedere una certa continuità tra le due amministrazioni.
Quanto alle sovrapposizioni tra la Casa Bianca e Mar-a-Lago, dal 1600 di Pennsylvania Avenue rassicurano sul clima di grande collaborazione tra i due team.
Una versione confermata anche dal prossimo consigliere per la Sicurezza nazionale Waltz il quale dai microfoni di Fox News ha smentito che il tycoon stia conducendo una "politica estera ombra" e ha inviato un messaggio agli avversari: "Se pensano che questo è un momento favorevole" per mettere un’amministrazione contro l’altra "si sbagliano... siamo un’unica squadra". Con buona pace dei residenti di Palm Beach.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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