Oggi è la festa del 75esimo compleanno dello Stato d’Israele. I giorni in Israele si contano da tramonto a tramonto, le feste ebraiche hanno questa scansione: ma mai un intero paese ne aveva fatto una norma. Adesso, proprio come in Europa la domenica è festa e come lo sono il Natale e la Pasqua, feste religiose e nazionali insieme, così al mondo c’è un piccolo Paese, lo Stato Ebraico, che parla la lingua della Bibbia, e chiude scuole e uffici, dalla sera alla sera, lo Shabbat, Yom Kippur, Pesach. Un Paese di un popolo che per due millenni ha dovuto vivere in un angolo, spesso nascosto e discriminato, chiedendo il piacere di essere accolto e mai ricevendolo davvero. Oggi questo popolo può difendersi, mentre fino a 75 anni fa era inerme di fronte a roghi, pogrom, di fronte alla Shoah.
La schiuma rabbiosa dell’«odio più antico» come l’ha chiamata Robert Wistrich non è finita, ma attacca oggi con l’antisemitismo le solide mura di uno stato. I suoi cittadini sono al quarto posto nella scala della felicità mondiale, le sue leggi li rendono tutti eguali, proprio il contrario di quello che è accaduto con le svariate discriminazioni cui sono stati sottoposti fino alle leggi razziali. Questa è la novità che ha oggi 75 anni. Ma negli eventi che viviamo ci sono significati contingenti: da settimane, i media sottolineano il duro scontro fra il governo e l’opposizione, in piazza contro la riforma giudiziaria, individuandovi, spesso con soddisfazione, una crisi profonda. I nemici di Israele, dall’Iran a Hamas, hanno anche letto nelle manifestazioni che hanno bloccato strade e attività, per altro pacificamente scortate dalla polizia di Stato, un segno di debolezza definitiva, persino la fine imminente dello Stato Ebraico. La loro consueta attività omicida ha cercato di imprimere sulla festa dell’Indipendenza un segno di sangue con l’attacco di Gerusalemme di lunedì e in Cisgiordania ieri. Ma la realtà ha un nocciolo storico duro, una stella splendente per chi la sa guardare: da 75 anni il popolo ebraico ha, dopo aver invano sognato Gerusalemme per due millenni, la sua casa. È una casa bellissima e confortevole dal deserto del Negev al Lago di Tiberiade, orlata di una costa mediterranea, dove un formicolare di milioni di persone lavora e si diverte, un Paese in cui oltre all’ebraico e all’arabo risuonano mille lingue dai cento colori, dove si sviluppano la migliore tecnologia, la medicina più avanzata, la più richiesta tecnica agricola e delle acque, l’esercito è compatto e tecnologico, e ogni famiglia ha abbastanza fiducia da mettere al mondo una media di tre bambini.
È la prima casa del popolo ebraico: è riuscito a ricostruirla offrendo la pace come deve fare ogni democrazia. Peccato che abbia ricevuto tanti «no». Oggi, è vero, il popolo ebraico litiga furiosamente, e la sostanza è drammatica, mai si è risolto il dilemma fra «popolo» e «religione»: i grandi saggi ne discutono da secoli. Molto semplificato, la parte laica vorrebbe uno stato «democratico»; quello di destra, tenderebbe a uno stato con tratti religiosi e impositivi.
Ma è un ritratto non fedele. Netanyahu, che è il primo ministro, è laico e liberale, ed è tuttavia lui stesso l’oggetto della maggiore contestazione, da una sinistra esasperata dal successo elettorale della destra. La parte religiosa, tuttavia, non può far sua un’Israele che ha alle spalle decenni ormai di costruzione di un Paese molto liberale, in cui ogni opinione e tendenza politica e sessuale convivono e sono onorate. È vera d’altra parte l’antica disputa fra la visione religiosa e quella laica: Israele può vivere solo nel compromesso. La sinistra dovrà sforzarsi di accettare i valorosi ebrei che nei secoli, morendo di fa- me e di persecuzioni, fino nei campi di concentramento, conservarono da eroi la tradizione: il popolo ebraico non esisterebbe, le pagine della Torah sarebbero carta straccia senza di loro.
D’altra parte, senza l’eroica forza d’animo dei combattenti socialisti che con Ben Gurion, dai kibbutz e dalle file della sinistra hanno combattuto, zappato la terra, sofferto la fame e dato la vita nella costruzione del Paese e nelle guerre, senza la loro ispirazione umanitaria,
non ci sarebbe uno Stato ancora ragazzo a 75 anni. Di questo popolo dovrebbe andar fiero il mondo. Le grandi civiltà e le grandi culture sono cadute nei secoli, la civiltà ebraica è rinata in nome dei valori dell’Occidente.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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