
La sua nomina alla guida del Tesoro Usa, lo scorso novembre, era stata una delle più ponderate da Donald Trump. Il voto di conferma al Senato, 68-29, era stato uno dei pochi a ottenere un consenso bipartisan. Sessantatre anni, ex docente di Yale, miliardario veterano di Wall Street, ex socio del fondi di investimento dell'«odiato» George Soros, gay dichiarato. È a Scott Bessent che i retroscenisti americani riconoscono, pressoché all'unanimità, il merito di avere convinto Donald Trump a cambiare rotta nella guerra dei dazi che stava stravolgendo l'economia mondiale e rischiava di far scivolare gli Stati Uniti da una «probabile» recessione ad una possibile depressione. Chissà se Bessent, durante lo scorso weekend a Mar-a-Lago al fianco del tycoon, ha ricordato a Trump il fantasma di Herbert Hoover, il presidente della Grande Depressione.
«Non voglio fare la fine di Hoover» aveva confessato Trump a gennaio dello scorso anno, auspicando che l'eventuale crollo di Wall Street avvenisse con Joe Biden alla Casa Bianca. L'annuncio sui dazi rischiava di far materializzare il suo incubo peggiore. Mercoledì, Bessent era nello Studio Ovale della Casa Bianca mentre Trump scriveva il post con il quale annunciava su Truth la pausa di 90 giorni nella guerra dei dazi, con l'eccezione della Cina. Insieme a lui, il segretario al Commercio, Howard Lutnick, uno dei falchi insieme al consigliere commerciale Peter Navarro. Anche Lutnick, dopo gli inquietanti segnali registrati sui bond Usa, si era convinto della necessità di un cambiamento di rotta. Bessent lo era da giorni. Era volato in Florida domenica per riferire a Trump, impegnato in un torneo di golf, il contenuto delle telefonate allarmate ricevute dai ceo di mezza America e dagli ex colleghi di Wall Street, che in poche ore avevano visto bruciare trilioni di dollari di capitalizzazioni. Non sarebbe stata una resa, aveva spiegato al tycoon, ci sono decine di Paesi che vogliono fare accordi. Andava solamente cambiato il messaggio. I dazi sarebbero tornati ad essere uno strumento per negoziare, non una realtà immutabile, come ipotizzato da Navarro, in attesa che in America si materializzassero le fabbriche e i milioni di posti di lavoro scomparsi in decenni di globalizzazione. Ancora lunedì, Trump confidava ai suoi che era disposto a sopportare del «dolore» e perfino una recessione. A preoccuparlo veramente era lo «scenario Hoover»: la depressione. «So quello che sto facendo» aveva detto ai congressmen repubblicani riuniti a Washington, «mi stanno tutti leccando il culo per fare accordi». Poi, mercoledì mattina, la decisione, dopo avere pranzato alla Casa Bianca con il finanziere Charles Schwab. E dopo avere ascoltato, sulle frequenze amiche di Fox Business, il ceo di JPMorgan Chase, Jamie Dimon, evocare lo spettro della recessione. La sera prima, c'era stato il tracollo dei bond Usa. È allora che Trump si sarebbe deciso. Bessent, che si trovava ad un pranzo, si recava in fretta alla Casa Bianca. Insieme a Trump e Lutnick metteva a punto il post che annunciava al mondo la tregua. «Non abbiamo consultato gli avvocati, lo abbiamo scritto col cuore» spiegherà poi Trump.
Il braccio di ferro ingaggiato da Pechino consentiva al presidente di non capitolare del tutto, concentrando sulla Cina il fronte della sua guerra commerciale. Ci saranno accordi «su misura» con i vari Paesi, spiegava Bessent ai cronisti fuori dalla West Wing. Il messaggio era definitivamente cambiato.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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