U na volta fatta la conta dei voti, chi avrà strappato le chiavi della Casa Bianca dovrà cominciare a fare i conti in casa. Per quanto divisi quasi su tutto, Donald Trump e Kamala Harris hanno un inequivocabile tratto in comune: l'intenzione di pigiare con forza sul pedale della spesa pubblica. È stato il vero caposaldo della campagna elettorale di entrambi, senza che nessuno dei due si sia troppo preoccupato di soffermarsi su come saranno reperite le entrate necessarie per non far affogare l'America in un eccesso di deficit.
L'accumulo di disavanzo è veleno puro per le arterie di un Paese il cui debito veleggia sopra i 35mila miliardi di dollari. Finora, lo status di valuta di riserva del dollaro non ha mai dato problemi nel rifinanziarlo attraverso emissioni del Tesoro. Ma il progressivo allargamento dei Brics, il cui obiettivo primario è l'affrancamento dal Green back, apre nuovi scenari. Inquietanti se il nuovo presidente non porrà un freno alle uscite. In base ai calcoli del Comitato per un bilancio responsabile si procede invece esattamente nella direzione contraria: la Kamalenomics farebbe crescere il debito di 4mila miliardi nel prossimo decennio, mentre il programma di The Donald lo farebbe lievitare di 7.800 miliardi.
In un mondo profondamente cambiato, Trump è rimasto fedele alla linea che nel 2016 lo portò al 1.600 di Pennsylvania Avenue. La Trumpeconomics è imperniata su tagli alle tasse e abbattimento totale della fiscalità che grava su sicurezza sociale e Medicare. Per quanto sia teso a stimolare l'economia e a strizzare l'occhio a Wall Street grazie alle basse imposte per private equity, capital gain e riacquisto di azioni proprie, questo impianto rischia di non essere abbastanza virtuoso da compensare tramite la crescita del Pil il buco di gettito e l'aumento di spesa. Sotto questo profilo sembrano più i costi rispetto ai benefici delle politiche protezionistiche che sono il nucleo fondante del «Make America Great Again». Trump conta di rinvigorire la manifattura interna e coprire il deficit attraverso l'introduzione di dazi del 20% sulle merci importate e del 60% sul «made in China». Ma queste misure esporranno lAmerica, come in passato, ad azioni di ritorsione da parte dei Paesi colpiti dalla «tagliola». Gli analisti prospettano una guerra commerciale che sarebbe la miccia d'innesco per una recessione accompagnata da nuova inflazione. Prezzi elevati che potrebbero poi diventare terreno per un nuovo scontro fra The Donald e Jerome Powell se il numero uno della Fed decidesse di alzare i tassi. Di fatto, un mix esplosivo che avrebbe ricadute sui mercati e in particolare sulle quotazioni delle multinazionali Usa che dipendono dalle catene di approvvigionamento internazionali. Anche l'intenzione di deportare 11 milioni di immigrati illegali avrebbe probabilmente ripercussioni negative sul tessuto economico.
Kamala dice no a nuovi dazi (ma confermerebbe gli inasprimenti tariffari di Biden contro Pechino) e punta su un assistenzialismo di stampo socialdemocratico «per ricostruire la classe media»: oltre alla cancellazione dei debiti sanitari, un credito d'imposta di 6mila dollari per le famiglie con bebé e un altro di 2.500 per chi compra casa per la prima volta e la costruzione di 3 milioni di nuove unità abitative. Come per Trump, nessuna sforbiciata in vista per l'assistenza sociale e sanitaria. Stretta invece sulle società con l'innalzamento dell'aliquota d'imposta dal 21% al 28%, una mossa tesa a incamerare gettito per circa 1,4 trilioni di dollari nel prossimo decennio, e sui generi alimentari con l'introduzione del controllo sui prezzi alimentari.
Una misura di autoritarismo economico storicamente nefasta e che nel peggiore degli scenari potrebbe provocare carenze di cibo, fioritura dei mercati neri e serrata degli alimentari. Terreno fertilissimo per un'inflazione alle stelle.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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