L’asse tra Israele e Libia. Prima volta dei ministri (con un incontro a Roma)

Faccia a faccia Cohen-Al Mangoush favorito dalla Farnesina. Un riavvicinamento storico

L’asse tra Israele e Libia. Prima volta dei ministri (con un incontro a Roma)
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Israele e la Libia hanno molte cose di cui parlare: di stabilità, di innovazione, di acqua, di agricoltura, anche di armi e di sicurezza. Per questo, con la mallevadoria dell’Italia, si sono incontrati la settimana scorsa il ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen e la sua omologa libica Najila Al Mangoush. Il ministro Antonio Tajani è stato pubblicamente ringraziato per il suo contributo nel disegnare questo storico incontro. Il presidente libico cui la signora al Mangoush fa capo è Abdul Hamid Dbeibeh, la cui legittimità è riconosciuta dagli Stati Uniti e dall’Europa. Per Israele è stata una importante occasione di consolidare il dialogo con l’Africa, cui ambisce dalla fondazione, e di puntare nel lungo termine a un accordo che allarghi i Patti di Abramo.

La vastità e l’importanza nel continente, la forza islamica della Libia, la sua complessa storia anche nel rapporto con i suoi ebrei che hanno sofferto persecuzioni e cacciate e oggi prosperano ma non cessando di ricordare i loro patimenti in Italia, ne fanno un interlocutore anche simbolicamente molto rilevante. Per un Paese come la Libia, dove scorrazzano le milizie dell’islamismo più feroce e dove chi le contrasta ultimamente si è trovato ostacolato dai mercenari della Wagner, un Paese che da decenni si dibatte in terribili conflitti interni mentre una massa di gente disperata cerca di raggiungere le coste e da là partire a ogni costo, approdare con la benedizione italiana a un dialogo con Israele significa lavorare con ambizione alla normalità e all’accettazione nel mondo occidentale. Fonti israeliane ci rivelano che da mesi non solo la parte legata a Dbeibeh, ma anche quelle delle altre due parti che si contendono il dominio del Paese, Khalifa Haftar e Fatiba Shaga, cui fanno capo le più svariate milizie a ispirazione religiosa e tribale, hanno a loro volta cercato e raggiunto contatti segreti con Israele. Tutti e tre i governi condividono l’ambizione di far rientrare la Libia nel gioco internazionale.

Israele ha ancora memoria del duro atteggiamento di Gheddafi verso lo Stato Ebraico: così come la sua persecuzione contro gli ebrei aveva indotto all’esilio ciò che restava della ricca e colta comunità locale, altrettanto duro fu il suo atteggiamento contro Israele. Tanto, da disapprovare pubblicamente e con l’espulsione negli anni Novanta di 5mila palestinesi, la scelta di Arafat di acconsentire (anche se poi si rivelò una finta) agli accordi Oslo con il loro comma principale: «Due stati per due popoli». Per lui il popolo ebraico non aveva nessun diritto alla terra d’Israele e i palestinesi di conseguenza dovevano insistere nel totale rifiuto belligerante.

Più avanti, prese a sostenere l’idea, evidentemente spinto da motivi di opportunità, che la soluzione poteva consistere non in una condivisione, ma in uno stato binazionale. Negli anni 2000 sostenne a spada tratta la sanguinosa Intifada che uccise con attentati terroristici quasi 2mila ebrei, ma poi tornò a quella che fu chiamata Isratin, l’idea di uno stato che fosse insieme Israele e Palestina.

Shimon Peres, il grande sognatore di una pace che non si realizzò mai, cerco addirittura di farne il mediatore di un accordo, e Gheddafi incaricò di questo il figlio Saif al Islam Gheddafi.

Oggi la Libia desidera approdare a una convalescenza, anche se è difficile prevedere come andranno le cose. Ma il suo incontro con Israele significa questo: ricerca di aiuto per equilibrio e pacificazione.

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