Mario Caligiuri è presidente della Società italiana di intelligence (Socint) e ordinario di pedagogia della comunicazione all’Università della Calabria dove dirige il Master in Intelligence. Esperto di dietro le quinte dell’America, dall’assalto a Capitol Hill ad attentati politici di varia natura, ha reso l’intelligence materia accademica, la insegna in Alte scuole dello Stato ed è autore di quella voce sulla Treccani.
Professore, oggi il focus è sul comportamento del secret service. È lecito parlare di falle nella protezione di Trump o hanno ragione gli 007 a respingere le accuse?
«Ci sono tanti luoghi comuni sull’intelligence, molti dei quali veri, ma sono di più quelli falsi, per esempio il ritenere che sia capace di prevedere qualunque cosa. Semplicemente non è così. Tanto più oggi».
Perché?
«Quest’episodio si inserisce nell’ambito della crisi della democrazia. In America nelle campagne elettorali certi episodi possono capitare, ce lo dice la storia. Vedi i fratelli Kennedy, indietro fino a Lincoln. Ovviamente il fatto assume una natura totalmente diversa rispetto ai precedenti. La causa più immediata è da cercare nel linguaggio di odio contrapposto, utilizzato sempre di più nelle campagne elettorali, che in determinate persone può creare destabilizzazioni e portare a comportamenti come quello visto sabato».
Ma a cosa servono i servizi allora?
«Grazie a Dio l’attacco non ha avuto conseguenze, è grave ma va inquadrato in questa crisi devastante del sistema democratico e delle inadeguatezze del dibattito pubblico, che in America assume componenti paranoiche. Diventa ingestibile anche dagli 007. In un comizio pubblico non puoi controllare al 100 per cento, qualcosa può sfuggire».
Anche stavolta c'è un messaggio video sui social del presunto attentatore. Ancora un ragazzo protagonista. La minaccia può ripetersi?
«Si parla poco degli attacchi sventati. Ma è chiaro che può succedere ancora. C’è un libro, Stati nervosi di William Davies, che spiega bene come ormai per tutti, e in particolare per i giovani, la percezione del mondo si segua non per ragione ma in conseguenza di certi stimoli promossi. Il mondo si sta organizzando così, i social stanno creando questa infosfera dentro cui noi siamo immersi, ed è solo la punta dell’iceberg. I fatti reali perdono autorevolezza. C’è un vuoto che nell’era digitale rischia di riempirsi di fantasie, congetture, e i social diventano un’arma da combattimento».
Nel suo ultimo libro «Maleducati», edito da Luiss University Press denuncia il proliferare della disinformazione. Ce n’è sull’attacco a Trump?
«I media per loro natura distorcono. Dice Nietsche: “Non esistono fatti ma interpretazioni”. Rifletterei non sull’effetto, che è l’attacco a Trump. Ma sul perché accadono certe cose. E su ciò l’informazione non riflette. Chiariamo: i Servizi dipendono dalla politica. Come quando si è detto fallimento dell’intelligence dopo la strage del 7 ottobre in Israele, è la politica che ha fallito, gli 007 dipendono da essa. Non sono uno Stato nello Stato. Non credo al complotto».
Le armi sono però un tema. Il 10 per cento degli americani giustifica la violenza contro Trump. Circa 26 milioni, 9 dei quali hanno un’arma...
«È una questione culturale profonda, è in Costituzione, armarsi anche per potersi difendere dalle istituzioni quando queste non fanno gli interessi generali. Si dovrebbe perciò guardare alla politica e ai toni che usa».
Allertano più le divisioni interne che le ingerenze esterne?
«Proprio così.
Diamo attenzione alla disinformazione russa e cinese, ma non a quella che si fa all’interno. La propaganda elettorale cos’è se non disinformazione? Non solo sui social, è l’impostazione complessiva che rende tutto molto pericoloso».- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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