Fuori un’altra. Domenica mentre l’ingegnere svizzero-iraniano Mohammad Abedini Najafabadi ritornava in patria dal carcere di Evin usciva Nahid Taghavi, una 70enne tedesco-iraniana arrestata nel 2020 e condannata a 10 anni di reclusione per propaganda contro il regime. In questo carosello di liberazioni e rimpatri è difficile dire se il caso Taghavi - di pertinenza fin qui del governo tedesco - sia diventato parte degli accordi trilaterali Italia-Usa e Iran che hanno portato allo scambio Sala-Abedini. La tempistica farebbe pensare di sì. La fretta con cui il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha firmato il «no» all’estradizione negli Usa dell’ingegnere svizzero-iraniano può esser legata all’esigenza di offrire una contropartita non solo per la Sala, ma anche per la Taghavi. Ma allora bisognerebbe pensare ad un accordo politicamente ben più ampio. Un accordo in cui Italia ed Europa avrebbero giocato in tandem.
Se questo fosse il caso allora uno dei corrispettivi richiesti dalla Repubblica Islamica potrebbe essere non solo il ritorno di Abedini, ma anche un impegno a riaprire i negoziati sul nucleare. Un negoziato che molti a Teheran considerano l’unica via per evitare un’intesa Netanyahu-Trump seguita da raid congiunti di Israele e Stati Uniti sulle infrastrutture nucleari iraniane. A spingere il regime sulla strada del negoziato non vi sarebbe soltanto la componente moderata guidata dal presidente Masoud Pezeshkian. Il discorso con cui il generale dei pasdaran Behrouz Esbati ha ammesso, una settimana fa, la dura sconfitta subita in Siria fa capire come le preoccupazioni per il futuro del paese si stiano facendo strada anche tra le componenti più intransigenti del regime. La perdita della Siria, il ridimensionamento di Hezbollah in Libano e la decimazione di Hamas a Gaza stanno trasformando l’Iran in una nazione alla mercé di Israele e degli Stati Uniti. Oltre a non disporre più degli alleati indispensabili per colpire Israele e le basi Usa nella regione la Repubblica Islamica deve far i conti con le conseguenze dei raid israeliani che il 26 ottobre hanno spazzato via le sue difese aeree. Da allora centri di comando, bunker della dirigenza politica religiosa e infrastrutture atomiche sono obbiettivi praticamente indifesi, totalmente esposti ad un’azione congiunta israeliano-americana finalizzata a non solo a fermarne la corsa al nucleare ma anche ad eliminarne la dirigenza politico religiosa.
A questa debolezza strategica s’aggiunge l’isolamento di un regime consapevole di non poter contare sul consenso di una popolazione stremata dall’inflazione e dal crollo del potere d’acquisto causato dalle sanzioni.
E se da una parte terrore e repressione sono - come dimostra la condanna a morte della dissidente curda Pakhshan Azizi - l’unico modo per mantenere il controllo del paese dall’altra proprio la liberazione dei detenuti politici e l’eventuale remissione delle sentenze capitali - possono diventare la strada scelta dal regime per riaprire la strada del negoziato e della mediazione europea.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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