Elefanti e tigri, foche e colombe hanno perso la loro regina. Le luci del circo di Moira Orfei sono spente dopo ottantaquattro anni di salti, piroette, musiche e danze, rulli di tamburi, feroci ruggiti e angelici voli tra i trapezi. Se ne va un pezzo di storia antica dello spettacolo, il circo e la sua magia, cinque lettere, MOIRA, e il resto era il tendone a righe gialle e azzurre, le voci dei bambini, i colori dei clown, la musica allegra e, insieme, malinconica, l'odore di segatura umida, noccioline e zucchero filato. Con Moira se ne va un mondo e un modo di essere e di vivere, il circo si aggrappa alla propria storia, ai propri miti, Moira lo è stato per quasi un secolo come la sua famiglia che nel circo è nata e nel circo continua a esistere. Per salutare il pubblico, ha scelto una domenica di nebbia, Brescia, il carrozzone che era la sua casa, in un angolo la statuina di padre Pio alla quale Moira era devota, poi tende e luci, lustrini, una lungo divano di stoffa con disegni a fiori, specchi, profumi, parrucche. Se ne è andata in silenzio, dopo una esistenza festosa, l'hanno trovata così, dormiente, forse inconsapevole di avere concluso il suo spettacolo, da tempo continuava a ripetere: «Nel circo diventi vecchia senza nemmeno accorgertene».
Lei, in verità, se ne era accorta quando un ictus, come una saetta, l'aveva improvvisamente bloccata. Si era ripresa, afferrando la vita con quelle lunghe unghie laccate che parevano artigli, con il turbante nero di capelli finissimi che portava come una corona sulla testa, il volto bistrato da due ore di trucco, bocca dipinta di fucsia, sul mento il neo scurito ogni mattina, gli occhiali con montatura grande a nascondere il tramonto di una donna bellissima.C'è una fotografia del 1953, scattata da Mario De Biasi, nella quale Miranda, come lei si chiamava prima che diventasse Moira per desiderio e suggerimento di Dino De Laurentiis, una immagine in bianco e nero, dicevo, che fu esposta al museo Guggenheim di New York in occasione di un evento dedicato all'Italia The Italian Metamorphosis. Miranda-Moira è di spalle, fasciata da un abito bianco e lungo, bianche le scarpe e bianca la borsa, cammina verso la Galleria di piazza del Duomo in Milano e davanti a lei c'è una folla di uomini ipnotizzati da quella femmina bellissima, c'è un tipo, tra tanti, che non molla lo sguardo e porta, nella tasca della giacca, una copia de La Notte, c'è una Lambretta parcheggiata di traverso, la ruota di una bicicletta che appare tra le gambe degli osservatori, il muso di un furgone Fiat, «Gli italiani si voltano», il titolo di quella fotografia, Moira era il simbolo di un'epoca e di un popolo.
Lo è stata nel circo e lo è stata, citando prima De Laurentiis, nel cinema, un altro tipo di arena, finta, con bestie più feroci, perché, diceva lei che le tigri non uccidono se non aggredite mentre gli uomini, le persone riescono a pugnalarti anche se le hai appena accarezzate.Nel mondo del cinema lavorò in quarantanove film, con Gassmann e Mastroianni, Germi e Tognazzi, gentiluomini di arte e di vita, poi spuntò Antonio De Curtis, Totò, e per poco Moira non si fece domare, come lei sapeva fare con i leoni e gli elefanti. Girò due pellicole con Totò, il primo, Totò e Cleopatra, interpretando la parte di Ottavia, sorella di Totonno-Marco Antonio, il secondo Il Monaco di Monza, nel quale vestiva l'abito di suor Virginia, monaca illustre. Fu allora che Totò avanzò la richiesta: «Se vieni a letto con me, giuro, non ti faccio nulla, di accarezzo soltanto ma ti regalo un alloggio da 30 milioni». Moira non arretrò come sapeva fare nella gabbia degli animali feroci: «Principe se non amassi davvero mio marito verrei subito da lei, ma...». Sfumò l'alloggio da trenta milioni che nel Sessantatré erano fior di denari e il principe rimase «monaco», con il suo sogno e desiderio. Moira aveva incontrato Walter Nones in Kuwait, secondo magia circense, si erano amati subito e poi sposati.Miranda veniva da un paese friulano, Codroipo, che, secondo una volgare leggenda, sarebbe l'anagramma di una bestemmia. Del furlàn non aveva conservato se non l'origine anagrafica, il suo accento ballava tra il lombardo e l'emiliano. Una vita da nomade, con la villa di San Donà di Piave frequentata nei giorni rarissimi di riposo, la casa vera è stata, da sempre e per sempre, la carovana, il carrozzone, a qualche metro dallo chapiteau, sotto il quale si esibivano il marito e il figlio, entrambi domatori.
Moira non andava a vedere il loro spettacolo, temeva che qualcosa potesse accadere, preferiva restare adagiata sul divano giallo, ascoltando la musica dell'orchestra. Quando questa, improvvisamente, calava di ritmo, la regina si impressionava, alzandosi dal sofà, chiedeva notizie, se qualcosa di brutto fosse accaduto là dentro. Accade una sera di novembre del duemila e nove, suo figlio Stefano venne azzannato alla spalla da una tigre, sangue e terrore, Brigitta Boccoli, moglie di Stefano, faceva parte di quel numero, arrivò urlando in pista.
Moira intuì ogni cosa, restando impietrita nel carrozzone. Era la sua vita, un'isola dorata, esclusiva, antica, in un mondo che, intanto, correva veloce altrove, abitato da animali indomabili. Il circo non si ferma ma sul viso del clown la lacrima, questa volta, è vera.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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